2007-BA.
Ridottissima serie di numeri e lettere. Una sigla innocua, il posto
di un parcheggio, la denominazione di una proteina, la
classificazione di un libro in biblioteca.
Ma 2007-BA era il nome della
morte. Un asteroide. Per l'ennesima volta il destino del pianeta
dipendeva da un pezzo di roccia.
Un meteorite aveva originato
il nostro satellite, la Luna; un altro aveva provocato l'estinzione
dei dinosauri. Col susseguirsi degli studi, dei calcoli e delle
simulazioni si ipotizzò inoltre che anche dietro le glaciazioni o
gli sconvolgimenti climatici più eclatanti ci fossero sempre degli
asteroidi; senza contare gli ettari di foreste bruciate o i villaggi
semidistrutti.
E adesso questo. 17 Dicembre
2116: la data di scadenza della Terra. Fra tre settimane.
La tecnologia non permetteva
di disintegrare il meteorite in sicurezza: anche impiegando missili a
testata nucleare si sarebbe sbriciolato in frammenti più piccoli ma
ugualmente letali, una terrificante pioggia di fuoco e fiamme.
L'evacuazione non era
un'alternativa perché con un diametro di 20 Km e un peso di 2.000
miliardi di tonnellate la devastazione sarebbe stata totale, sia che
impattasse al suolo che in mare.
Si stimò che sarebbe caduto
nell'Italia Centrale, alla velocità di 290.000 Km/h.
L'unica via di scampo non
era quindi nello spazio, bensì nel tempo.
A differenza dei viaggi
intergalattici, rimasti pura utopia, il viaggio nel tempo era
possibile.
La notizia non fu mai
divulgata e nessuno ne fece mai uso ufficialmente. Il Governo si
adoperò per insabbiare l'avvenimento e mantenere una segretezza
pressoché assoluta. Per questo non sono note le circostanze esatte
in cui si svolse l'esperimento, né si conoscono l'inventore del
dispositivo o i membri dell'equipe che lavorò al progetto.
Ora però quello stesso
Governo, (composto dai leader delle dieci maggiori Potenze), riunito
in un bunker sotterraneo attrezzato di ogni lusso e comodità, stava
pianificando una trasmigrazione temporale.
Inizialmente si pensò di
trasferire un ristretto numero di persone in un punto imprecisato del
futuro. Molti obiettarono che non fosse moralmente corretto salvare
pochi prescelti (fossero anche le menti più brillanti), lasciando
morire sciami di moltitudini inconsapevoli. Gli scienziati
sollevarono dubbi anche sulla direzione da prendere lungo la linea
temporale: non più nel futuro, magari un futuro di polveri e miasmi
letali da respirare per secoli o milioni di anni, ma nel passato, che
sembrò d'un tratto più a portata di mano, per così dire, più
vicino e più comodo, in quanto noto.
Il cronotraveler, il
dispositivo per viaggiare nel tempo, era individuale, delle
dimensioni e delle sembianze di un orologio da polso. Ne esistevano
un centinaio. Si digitava gg/mm/ (+ o - ) aaaaaa (giorno, mese e
anno, prima e dopo Cristo) e premendo il pulsante invio si veniva
spediti alle coordinate indicate. Si poteva anche memorizzare una
data di default verso cui si veniva indirizzati premendo il pulsante
reset.
Restava da testarlo a dovere
e individuare l'epoca più opportuna dove trasferirsi.
E proprio di questo si stava
occupando il nostro protagonista, il viaggiatore designato che
chiamerò Alan. Scelsero per iniziare l'anno 1975 D.C., un'epoca
recente e quindi avanzata tecnologicamente, e relativamente
tranquilla in quanto posteriore al secondo conflitto mondiale. Ogni
volta poi, al sopraggiungere di 2007-BA sarebbero tornati indietro.
Avevano tre settimane per trovare l'anno più opportuno. Impostarono
come default il giorno corrente, dotarono Alan di armi e kit di
pronto soccorso e l'avventura iniziò.
15/06/001975. Il problema
della macchina del tempo era che non si sapeva mai dove ti avrebbe
teletrasportato: in fondo al mare, in una grotta al centro della
Terra, in mezzo alla strada nell'ora di punta; in America, Asia,
Oceania, sospeso in aria, in caduta libera dalla ionosfera... Per
fortuna impostando il default si poteva fissare, oltre alle
coordinate temporali, anche il luogo corrente, il posto dove ci si
trovava in quel momento: in questo caso il laboratorio del bunker
segreto nell'anno 2116, un luogo sicuro dove tornare.
Invio. Alan venne
smolecolarizzato e si ricompose con un tenue bagliore, perturbando
l'aria circostante. Al suo apparire uno strano quadrupede trasalì e
rimase impietrito, scomparendo poi nella boscaglia con rapidi balzi.
Non riuscì a inquadrarlo nello scanner ma le macchie bianche sul
manto marrone gli suggerirono che doveva trattarsi di un daino, un
mammifero estinto da decenni che aveva visto nell'enciclopedia
olografica.
Con un semplice tocco attivò
il localizzatore che aveva al polso: Cesane, monti – Pesaro Urbino
– Marche – Italy. Era in mezzo a un bosco, non scorgeva sentieri
né anima viva. Armò la pistola disgregatrice e procedette in
esplorazione. D'improvviso si sentì percorso da potenti vibrazioni e
da un languido senso di nausea. Sul display del cronotraveler al
polso sinistro lampeggiava in rosso la scritta “failure”.
In preda al panico premette
e ripremette il tasto reset ma lo scenario non cambiava. Le
vibrazioni e il lampeggiare continuavano. “Failure”, finché la
macchina del tempo emise tre forti bip e lo smaterializzò
sfilacciandolo nel vortice spazio-temporale.
Atterrò malamente su una
landa brulla e desolata, cadendo da circa due metri, per fortuna
senza conseguenze. Il terreno era coperto da una polvere grigiastra e
ampi crepacci si aprivano qua e là.
All'orizzonte si stagliava
un imponente muro verde: vegetazione, alberi probabilmente.
Cercò di svegliare il
localizzatore ma il display era morto. Il cronotraveler era sempre in
“failure”.
Non
compariva nemmeno il tastierino per immettere una data.
Il
visore sul casco captò del movimento e proiettò sulla visiera
direzione e distanza. Una croce al centro di un cerchio lampeggiava e
bippava sempre più insistentemente quando ci si avvicinava al
bersaglio, mentre un calcolatore digitale incrementava o diminuiva la
distanza del soggetto o dell'oggetto in movimento. Il sibilo divenne
continuo e penetrante in direzione dei boschi all'orizzonte. Comparve
un frenetico conto alla rovescia che partiva da 900 metri.
800-700...
Imbracciò il fucile laser che teneva a tracolla e ne azionò le
cariche fotoniche.
600...
sentiva la terra tremare sotto i suoi piedi.
500...
le fronde si agitavano nella boscaglia in lontananza.
Una
sagoma scura apparve all'orizzonte. Zumò. Ancora. Ancora. 5X. Un
tirannosauro stava correndo verso di lui. Aveva qualcosa sulla
schiena. Zoom. Non era qualcosa, era qualcuno. Un uomo, un ominide.
Una sella coi finimenti.
Alla
velocità con cui procedeva l'avrebbe raggiunto in pochi secondi.
Fece rientrare la visiera e puntò il fucile ormai completamente
carico.
L'enorme
rettile si fermò a pochi metri da lui, impennandosi alla tirata di
redini del cavaliere e spalancando le fauci in un ringhio cavernoso e
brutale.
L'ominide,
di carnagione olivastra, aveva il viso tozzo e con un forte
prognatismo. I capelli erano neri, radi e lunghi e brandiva una
lancia dal manico in legno e dalla punta in selce.
Alan
avrebbe potuto carbonizzarli all'istante, ma esitò un attimo di
troppo. Non aveva mai ucciso nessuno, e in più era sconcertato da
quella visione: un conto era osservare la proiezione di un T-Rex su
un olobook di storia e un conto era trovarselo a un palmo dal naso.
L'ominide
scagliò la lancia. Alan la schivò scartando di lato, ma non poté
evitare che il sauro gli triturasse un fianco sferrando un morso con
insospettabile velocità.
Accecato
dalla vista delle carni straziate e sanguinanti, fece fuoco. Un
raggio di luce rossa disintegrò i due riducendoli a un cumulo di
cenere. Il morso gli aveva strappato via mezzo addome. Si accasciò a
terra tenendosi la pancia. Le viscere eruttavano come serpenti a
molla compressi in una scatola, schizzandogli sulla mano copiosi
fiotti caldi. Gettò il fucile, si sfilò dalle spalle lo zainetto e
tirò fuori il kit d'emergenza.
Ebbe un
mancamento, la vista si affievolì. Frugando affannosamente estrasse
un cilindro nero grosso quanto un candelotto di dinamite. Premette il
bottone all'estremità finché un led rosso non divenne verde.
Ricacciò dentro le budella urlando a squarciagola e spruzzò sulla
ferita una patina gelatinosa. Il medi jet agiva in trenta secondi.
Era un rigeneratore organico. Nebulizzava nanoparticelle combinate a
molecole di DNA, guarendo e ricreando i tessuti danneggiati. Il
meccanismo si ispirava alle stampanti 3D del XXI secolo, usate anche
per sintetizzare cibo nei paesi africani ai tempi della Grande
Carestia del 2063.
Si alzò
in piedi rimirando la miracolosa guarigione, tastandosi quasi con
riluttanza la porzione d'addome da cui poco prima fuoriusciva una
cascata di visceri sanguinolenti. Ma non poté assaporare in pace
quella sensazione: il cronotraveler aveva deciso che era tempo di
saltare di nuovo nella centrifuga.
Azionò
prontamente la chiusura ermetica del casco e la riserva di ossigeno
iniziò a entrare in circolo. Annaspava per riemergere, fortemente
impedito dalla tuta spaziale che però almeno lo isolava
termicamente. L'acqua del fiume doveva essere gelata. Appena fu a
galla fece rientrare la visiera, respirando a pieni polmoni e
gettando occhiate tutt'intorno. Lo sovrastava un maestoso castello.
Il ponte levatoio era alzato e si ergeva ripiegato proprio di fronte
a lui. Scorse una macchia scura farglisi incontro. Alla sua destra
occhieggiò una fila di squame. Si alzò qualche spruzzo. Disintegrò
il primo coccodrillo proprio mentre gli saltava addosso a fauci
spalancate. Le acque ribollirono al contatto col raggio laser,
richiamando altre frenetiche chiazze subacquee. Alan sparò
all'impazzata intorno a sé finché la spia di alimentazione della
pistola iniziò a lampeggiare. Brandelli d'alligatore galleggiavano
ovunque: tranci di ventri mollicci e verdi squame legnose.
Ansimando
si issò sull'argine, lasciandosi cadere sull'erba soffice. Doveva
calmarsi e riprendere fiato. Nuvole spumose come meringhe
attraversavano calme il cielo.
Il
sensore di movimento non segnalava pericoli. Il cronotraveler non
dava segno di vita, col display penosamente muto e i pulsanti che
suonavano ciocchi; ma si sarebbe rianimato all'improvviso, lo sapeva,
per gettarlo a casaccio in qualche spirale dimensionale.
Sospirando
si rimise in piedi. Il ponte levatoio, sulla facciata del castello,
sembrava una bocca e i finestroni affrescati erano gli occhi. Sui due
torrioni ai lati sventolavano bandiere gialle e blu con un leone
rampante incorniciato da uno scudo. In mezzo correva una fitta
merlatura. Non c'era passaggio di sentinelle nei camminamenti di
guardia. Azionando il jet pack sorvolò in un batter d'occhio
l'anello d'acqua infestata e atterrò molleggiando davanti al ponte
levatoio, quell'immensa bocca lignea imbronciata. Fece il giro delle
mura, quando un grido stridulo lo costrinse ad alzare lo sguardo.
“Siete
dunque giunto a salvarmi, prode cavaliere?”
Una
fanciulla meravigliosa si sbracciava dall'alta torre, calando dalla
finestra una lunghissima treccia bionda che arrivava quasi fino a
terra. La inquadrò nel visore e ingrandì: gli occhi di un
ammaliante turchese, le guance accese di tenue rossore. Una
sensualità acerba e irresistibile.
Volle
rispondere qualcosa ma fu ricacciato furiosamente nel vortice e
risputato in un altro prato, in un altro tempo. Questo però era un
giardino, a giudicare dalla cura delle siepi e del manto erboso. Un
giardino cosparso di variopinti alberi da frutto e gruppi di cespugli
bassi ingemmati di more e lamponi. Una brezza leggera accarezzava le
chiome e il fogliame, spandendo un aroma vellutato di vaniglia e
miele. Nella donna che gli veniva incontro credette di riconoscere la
fanciulla del castello, tanto era bella; di una bellezza surreale,
fiabesca. E per di più completamente nuda. I capelli castani
ricadevano in ampie volute sulle spalle aggraziate e sui seni bianchi
e morbidi. La donna fissava Alan meravigliata dello strano
abbigliamento, ma non impaurita. Nel suo sguardo si leggevano
curiosità e innocenza.
“Io
sono Eva”, gli disse avvicinandosi fino a toccare un lembo della
tuta spaziale. Ne saggiava la consistenza e disorientata passava a
paragonarla alla sua graziosa nudità.
“Io
sono Alan”, bisbigliò incredulo. Stava per aggiungere “piacere
di conoscerti”, ma la frase gli sembrò quantomai fuori luogo e gli
si strozzò in gola.
Nel
frattempo, come se seguissero la padrona, tantissimi animali, delle
specie più diverse, accorrevano dai dintorni e si avvicinavano
tranquillamente. C'era qualcosa di insolito. Nell'aria aleggiavano
quiete profonda e una serenità quasi inebriante. Il leone non
bramava la gazzella che gli saltava leggiadra al fianco, la gazzella
non si preoccupava del leone che ruggiva sommessamente. Ed era lo
stesso fra tigri e stambecchi, tra leopardi e conigli, tra orsi e
volpi. Arcobaleni nascevano all'improvviso fra un laghetto e l'altro,
rimbalzando nelle fontane adorne di statue.
“Dove
siamo?”, domandò Alan.
In
risposta udì dei passi giganteschi alle sue spalle. Allibito si
voltò e prese a far scorrere lentamente lo sguardo sui sandali
ciclopici, su per le gambe, lungo il saio bianco fino al cordone
stretto in vita che si perdeva fra le nuvole...
Una voce
echeggiò cavernosa e perentoria, ma rassicurante e salvifica al
tempo stesso.
“Questo
è il Paradiso Terr...”
E di
nuovo tutto per Alan si perse nei frammenti di quel vorticoso
fagocitare. Come una scheggia impazzita turbinava nel tunnel
psichedelico tempestato di lampi e scariche elettriche, attendendo
sconsolato la prossima meta.
Trascorsero
così ancora sei lunghi mesi, spesi a vagare soffertamente per epoche
remote e future, in un peregrinare insensato e sfibrante. Il cibo in
pillole si stava esaurendo, ne aveva al massimo per un paio di
settimane. Aveva imparato che la sua tecnologia era impotente contro
la magia e gli incantesimi: se l'era vista brutta nel reame di elfi e
fate, quando, scambiatolo per un invasore, per poco non l'avevano
tramutato in rospo; per fortuna la regina Liael aveva indovinato le
sue pacifiche intenzioni e l'aveva risparmiato, regalandogli anche un
sacchetto di monete d'oro. Di ritorno nel suo mondo sarebbe stato
ricco. Se mai fosse tornato.
Un bel
giorno, nell'ottobre del 1944, mentre si trovava in Germania sotto i
bombardamenti, il cronotraveler funzionò di nuovo. Così, di punto
in bianco, accadde e basta: premette reset per la milionesima volta,
non sperandoci nemmeno più, e invece si ritrovò nel laboratorio da
dove era partito sei mesi prima. Solo che era deserto. Il
cronotraveler aveva sbagliato di qualche minuto. Doveva
approfittarne. Rubò un altro cronotraveler dalla cassaforte a
parete: come alcuni degli scienziati coinvolti nel progetto conosceva
la combinazione, anche se nessuno avrebbe dovuto. Sentì dei passi in
corridoio. Di sicuro era l'altro se stesso, con tutti i colleghi, che
si accingeva a lanciare l'esperimento da lui appena concluso. Su un
foglio scrisse in tutta fretta, a caratteri molto grandi: “VA BENE
IL 1975. BUONA FORTUNA. ADDIO. ALAN” e lo sistemò sotto il monitor
del pannello di controllo centrale. Appoggiò sopra la scrivania
anche il gruzzoletto di monete donatogli dalla regina delle fate.
Sarebbero servite di certo più a loro che a lui. Senza farsi notare
sgattaiolò fuori dalla stanza e accovacciato sotto l'ampia vetrata
li sentì vociare confusamente a proposito del suo messaggio e
dell'oro. Strisciò dentro un altro laboratorio, fortunatamente vuoto
anche quello.
Ogni
cronotraveler conteneva una scatola nera che registrava tutte le
coordinate spazio-temporali raggiunte. Anche se il display era fuori
uso, forse le informazioni erano state conservate. Collegò il
dispositivo a un elaboratore diagnostico e soffocò a stento un urlo
di gioia quando sullo schermo iniziarono a scorrere righe e righe di
giorni, mesi e anni. Trasferì i dati nel nuovo cronotraveler appena
rubato, scelse la destinazione e dette invio.
“Prode
cavaliere, siete dunque tornato per salvarmi?”, gridò la fanciulla
dalla lunghissima treccia, prigioniera nell'alta torre.
“Invero
sì, madamigella!”, esclamò Alan azionando il jet pack e
librandosi in volo fino alla sua finestra.
“Non
temete mia signora, vi salverò io. Reggetevi a me”, disse mentre
la teneva stretta, sospesa per aria.
“Io
sono Alan. Qual è il vostro nome di grazia, mia signora?”
“Raperonzolo”,
rispose spaventata.
“Bene,
Raperonzolo, fidatevi di me”, disse Alan impostando di nuovo il
cronotraveler e sparendo con lei nel gorgo temporale.
“Coraggio
Eva... assaggiala! E' buonissima vedrai...”, sibilò il serpente.
Eva si
guardava intorno perplessa, cercando Adamo per chiedere consiglio.
Incalzata dal serpente alla fine si decise. Accostò con titubanza il
pomo rosato alle labbra. Al momento del morso però gettò un grido,
osservando la mela sgretolarsi in uno sbuffo di fumo, colpita da un
accecante raggio rosso.
“Ehi
tu! Chi sei, cosa credi di fa...”, urlò il serpente ma Alan lo
fulminò con un altro colpo di pistola.
“Grazie
straniero, per un pelo!”, tuonò il gigante in sandali e saio
accorrendo trafelato con Adamo al seguito.
“Come
ti chiami e chi è la fanciulla?” continuò la possente voce da
sopra le montagne.
“Io
mi chiamo Alan, Signore, e questa è la mia ragazza, Raperonzolo.
Volevamo chiederLe il permesso di stabilirci qui. Le giuro che siamo
entrambi brave persone e seguiremo i Suoi insegnamenti senza
disubbidire”, esclamò guardando Raperonzolo che annuiva
entusiasta.
“Ti
credo Alan. So che siete giovani di buon cuore. In virtù di quello
che hai appena fatto, concedo molto volentieri a te e alla tua
ragazza di vivere qui. In fondo due coppie sono meglio di una. C'è
spazio a sufficienza per i figli che vorrete avere, e per i figli dei
figli, e i figli dei figli ancora...”
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