Come ogni mattina lo svegliò il cellulare sulla mensola,
alla sua sinistra: le sei e tre quarti. Come ogni mattina il pensiero
del suo squallido monolocale lo avvilì. Un anno fa era stato a un
passo dall'altare e adesso era solo come un cane. Ironia della sorte
aveva un gatto a fargli compagnia. Provava un’indefinita
svogliatezza e un leggero senso di nausea. Tra poco in ufficio ci
sarebbe stata una pesantissima riunione sul bilancio di fine anno e
lui era nell'elenco dei relatori. Il suo intervento era il quinto
della mattinata. Voci di corridoio mormoravano di licenziamenti,
declassamenti e trasferimenti. Allungò la mano, zittì il telefono e
come uno zombie si trascinò alla porta del bagno. - Occupato – si
sentì rispondere. Provò ad aprire ma era inchiavato. Troppo
assonnato perfino per pensare, si accovacciò a sbirciare dalla
serratura. Dallo spiraglio lasciato libero dalla chiave intravvide
una persona identica a lui intenta a farsi la barba davanti allo
specchio.
Una leggera bruma imperversava nella notte senza luna.
Intorno tutto taceva. Solo buio pesto. Non era un uomo per fortuna.
Nemmeno un cane. Ma quegli occhi e quelle zanne non erano di questo
mondo. Acquattato dietro un cespuglio cercavo di scorgere tra gli
alberi il minimo movimento. Nulla. Non si muoveva foglia. Nemmeno un
alito di vento. Un silenzio immobile e innaturale. A una ventina di
metri la mia Alfa ridotta ad un groviglio di lamiere, col fumo bianco
che ancora usciva dal cofano. D'improvviso un sibilo dietro di me.
L'autobus si era quasi del tutto svuotato. La maggior
parte erano scesi alla fermata precedente, quella della scuola. Marco
osservava dal finestrino i suoi compagni che come un esercito di
soldatini armati di zainetto cartelle e album da disegno marciavano
verso il fronte delle quotidiane interrogazioni e dei compiti in
classe. La giornata però era troppo bella per sprecarla, e quindi
lui e Andrea si erano sentiti il giorno prima e avevano deciso di
passare la mattinata al mare. Marco e Andrea erano da sempre compagni
di banco, dalle medie fino ad ora, nella quinta ginnasio del liceo
Tasso. Erano tanto più amici quanto più diversi. Forse era proprio
quella la forza della loro amicizia. Marco uno studente modello, otto
in tutte le materie indifferentemente, anche se lui preferiva quelle
umanistiche; Andrea invece era il classico bulletto scavezzacollo con
tutti quattro/cinque, più amante delle scorribande in motorino,
delle bravate coi compagni o delle spacconate con le compagne. Già
alle nove del mattino il sole splendeva alto e picchiava abbastanza.
Marco gettò un'occhiata al suo zaino, dove invece di libri e
quaderni aveva asciugamano, pallone e crema solare. Tra un' oretta
sarebbe arrivato alla spiaggia e avrebbe trovato ad aspettarlo il
sorriso beffardo di Andrea con la sua Vespa bianca. Era bella quella
sensazione di trasgressione, quella botta di straordinario in una
giornata altrimenti deprimente e pallosa come tutte le altre. Marco
sorrise mentre cullava questi pensieri all'andatura soporifera del
vecchio autobus arancione. D'un tratto si sentì un po' in colpa
perché di lì a poco lui sarebbe stato promosso, mentre il suo
compagno Andrea di sicuro non sarebbe andato al liceo. D'improvviso
un gatto rosso catturò la sua attenzione. Era accovacciato ad una
fermata di fianco a tre bambine cinesi, una signora più anziana,
forse la madre e un signore distinto, in giacca cravatta occhiali
scuri pizzetto e ventiquattro ore, un rappresentante, un uomo
d'affari o qualcosa di simile. Quel gatto sembrava guardarlo. Un bel
gattone tigrato rosso con gli occhi verdi. L'autobus era filato via
senza il minimo rallentamento, nessuno aveva fatto cenno al
conducente di dover salire. Le quattro persone erano rimaste
completamente immobili, sembravano quasi statue di cera, impassibili
e assenti. Gli occhi del gatto in confronto sprizzavano una potente
vitalità. Marco si infastidì e distolse il viso dal finestrino.
L'autobus si fermò e scesero tutti. Marco rimase solo. Un'occhiata
all'orologio: le nove e un quarto. L'autobus riprese la sua corsa e
Marco si rimise a guadare fuori. Il tempo era cambiato di colpo, non
c'era più il bel sole di prima, si era fatto molto nuvoloso. Strano.
Marco guardò in direzione dell'autista come a chiedergli
spiegazioni, ma dal suo posto non poteva nemmeno vederne il riflesso
sul retrovisore. Per quel che ne sapeva l'autobus avrebbe potuto
anche muoversi da solo, spinto dalla stessa energia oscura e
misteriosa che aveva guastato quella splendida mattinata estiva
rendendola cupa e uggiosa come una di fine novembre. Era inquieto,
non vedeva l'ora di raggiungere Andrea. L'autobus superò un'altra
fermata a tutta velocità. Sotto la pensilina nessuno. L'autobus
sembrava andare sempre più veloce e superava solo fermate deserte.
Erano le nove e mezza, gli sembrò che il tempo si fosse dilatato,
non si ricordava tutte quelle fermate in soli venti minuti. Ecco
un'altra fermata: l'autobus al solito proseguì imperterrito ma con
la coda dell'occhio Marco scorse un bagliore verde in un gomitolo
rosso. Possibile fosse quel gatto? Dopo qualche istante lo vide
distintamente, accovacciato su un muro in pietra vicino ad un grande
cancello in ferro battuto. Lo vide per tempo e mentre l'autobus si
avvicinava lui e il gatto si guadavano. Per tutto il tempo che
l'autobus si avvicinò al gatto e finché lo superò i loro sguardi
si incontrarono. Dopo qualche minuto l'autobus si fermò. Marco
guardò fuori ma non c'era nessuno. Sulla panca sotto la pensilina
solo cartacce e una bottiglia vuota, una fermata fantasma come tutte
quelle di prima. L'autobus non ripartiva. Dall'abitacolo dell'autista
non giungeva segno di vita. All'improvviso qualcosa di rossiccio
sgattaiolò dentro. La porta si chiuse e il gatto balzò sul posto
vuoto di fronte a Marco. Il ragazzo e il felino si guardavano negli
occhi in silenzio. Il gatto leggeva paura e sgomento in quelli di
Marco. Marco invece notò con sollievo che gli occhi smeraldo del
gatto si erano fatti d'un tratto benevoli e sornioni. - Non vai a
scuola oggi? - chiese il micio.
Da
lassù vedeva un pullulare caotico di luci, puntini scuri e piccoli
rettangoli. Se fosse stato giorno probabilmente avrebbe suscitato più
clamore: i puntini scuri si sarebbero raccolti in cerchi, ovali,
sarebbe sbucato un megafono; i piccoli rettangoli avrebbero smesso di
fare avanti e indietro. La notte gli infondeva quiete, e questo lo
aiutava. Bruno voleva andarsene in silenzio come aveva vissuto.
Nessun rimpianto, la lettera avrebbe spiegato a Chiara, la moglie,
che lei non c’entrava, non era colpa sua, non importava se quella
volta l’idraulico era forse un po’ troppo imbarazzato;
assolutamente non c’entrava il fatto che non lei non potesse avere
bambini. Forse la goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stata
la sfuriata del suo capo-ufficio, il giorno prima. Gli aveva dato
dell’incapace, dell’ignorante, del fannullone. Ma cosa gliene
fregava poi? In fondo quel lavoro non gli piaceva nemmeno...ma forse
anche questa era solo una delle mille ragioni. E’ inutile adesso
chiedersi cosa passi per la mente di un suicida, credo sia uno dei
misteri dell’universo, al pari dell’evolversi delle galassie,
dei buchi neri e dell’esistenza di Dio. Fatto stava che aveva
deciso di farla finita. La molla scattò, l’interruttore accese la
scintilla. Dalla matassa intricatissima di miliardi di sinapsi partì
l’impulso che disse alle sue gambe di staccarsi dal terrazzo.
Teneva gli occhi chiusi, la sua mente era leggera come non si
sarebbe mai immaginato. Ad un tratto fu come se il vento divenisse
impetuoso e si levasse una tempesta; d’istinto spalancò gli occhi
e si accorse che aveva smesso di precipitare. Respirò lentamente per
calmare l’agitazione dello stupore e volò per qualche metro. Si
fermò un attimo e guardò giù. Non era cambiato nulla, ma tutta
quella frenesia gli appariva adesso vuota e sciocca. Poi capì:
guardò in alto e vide la luna. Mai così vicina. Mai così bella.
Mai così luminosa. Luminosa e illuminante: la vita adesso aveva
tutto un altro sapore, per la prima volta gli parve avere senso. Volò
di nuovo per qualche metro, rapidissimamente prendeva sempre più
confidenza con la sua nuova abilità. Dopo qualche minuto già poteva
volare per centinaia di metri, dopo un'ora di esercizio non aveva più
nulla da imparare. E volava, volava velocissimo, scendeva in
picchiata, si divertiva a schivare i tralicci elettrici, faceva
piroette, evoluzioni e acrobazie. Ogni tanto indugiava qualche
istante alle finestre dei piani più alti e osservava una tranquilla
cena in famiglia o una furibonda lite fra innamorati o la solitudine
di tizi qualunque sprofondati sul divano davanti alla televisione. Ad
un certo punto si accorse che dal terrazzo di un edificio poco
distante qualcuno gli faceva dei segnali con una torcia. Volò più
vicino e sentì distintamente lo sconosciuto intimargli di smetterla
e di scendere. Planò sul terrazzone con troppa veemenza, era ancora
alle prime armi dopotutto, per poco non urtò l'altro uomo. - Cavolo
atterrare è molto più difficile che volare... - Non appena fu coi
piedi per terra l'altro gli si avventò contro e lo prese per il
bavero della camicia – Ma sei matto ?! Cos'hai in testa, così ti
farai ammazzare! Basta, scendi, possono vederti...- Hai visto, posso
volare!!!...so volare, volo!!! - Bruno parlava da solo, era fuori di
sé dalla felicità e non si curò affatto del tono e della rabbia
del suo interlocutore – Incredibile...non è
possibile...aspetta...forse è un sogno... - L'altro gli diede un
sonoro schiaffo in faccia. Bruno rimase interdetto, ma almeno adesso
sapeva che non era un sogno. - Ma che cazzo fai, sei scemo? Perché
mi hai colpito?!...E poi chi sei, perché hai chiamato?! Mi chiami
per picchiarmi??! - Ascoltami bene – iniziò l'altro in tono grave
– ho visto che voli, lo so che voli. Anche io so volare e come me
altri possono farlo. Siamo quasi quattrocento ormai. Ci siamo riuniti
in una nostra comunità. Io l'ho scoperto tre mesi fa. Volevi
suicidarti vero? Io mi gettai proprio da questo palazzo, ho perso
tutto giocando in borsa. Anche volendo però, per fortuna o sfiga che
sia, la vita non sono riuscito a perderla. I nostri scienziati sanno
per ora che accade a quelli come noi che si gettano nel vuoto col
chiaro intento di uccidersi. Non funziona se cadi per sbaglio dal
balcone, da un'impalcatura o da una finestra, mentre giochi o sei
distratto o fai lavori e pulizie; non succede nemmeno se non ti si
apre il paracadute: devi suicidarti. Non abbiamo ancora scoperto un
particolare gene o caratteristica fisico/biologica che ne sia
responsabile. Non dipende né dal sesso né dall'età né dalla
razza. Con ogni probabilità rientra in quel 90% di cervello che
normalmente non si usa. Ma il brutto è che lo sanno anche loro. -
Loro chi? - chiese Bruno. - Parlo di quelli dell'area 51,
dell'alternativa 3, degli esperimenti per il controllo climatico, dei
viaggi temporali. Scommetto che non ci hai mai creduto, quasi nessuno
ci crede, è quello che vogliono; fanno di tutto per far passare
queste cose come cialtronerie, fantascienza o favolette, diffondendo
forum e blog in rete e promuovendo ridicoli programmi televisivi.
Invece è tutto vero. Rifletti un attimo: prima di stasera avresti
mai creduto che gli uomini potessero volare? - Bruno trasalì.
Quell'uomo aveva colto nel segno. Lo sconosciuto continuò –
Immagina se si venisse a sapere: le compagnie aeree fallirebbero, non
si venderebbero più né auto né moto, non ci sarebbe più bisogno
della benzina, del petrolio. Adesso tengono il mondo per le palle. Se
ti scoprono ti ammazzano. Non vogliono perdere il loro potere e i
loro miliardi. Ti fanno fuori senza pensarci un secondo. Sai quanti
amici ho visto uccidere...loro possono tutto e non temono niente, per
loro non c'è né legge né giustizia, sono al di fuori e al di sopra
di tutto e tutti. Si tratta di un'organizzazione paramilitare
segretissima, una sessantina di persone in tutto il mondo. - Dopo
quella spiegazione Bruno, visibilmente scioccato si mise a sedere a
terra e si prese la testa fra le mani. Era decisamente troppo tutto
in una volta. Lo sconosciuto fece una pausa, un lungo respiro e gli
disse con tono pacato – Da stasera tu per tutti sei morto. Non puoi
più tornare alla solita vita. - E chi la vuole... è proprio per
quello che volevo ammazzarmi...- sorrise Bruno. - Eh già, questo è
uno dei lati positivi della faccenda... - rispose lo sconosciuto
tendendogli la mano e issandolo in piedi. - Andiamo dai, ti porto
dagli altri – Bruno annuì, si alzarono in volo e scomparvero nella
notte.
Non riusciva proprio a concentrarsi. La
giornata piovosa al di là dei finestroni non aiutava. Fissava sul
monitor il report in excel ma da venti minuti non faceva un clic. Era
molto arrabbiato. In ufficio erano giorni difficili. Un caos di
telefonate a raffica, conference call, non si poteva rimanere su un
lavoro per più di cinque minuti di fila. Il genere di cose che
mettono profondamente in crisi quelli col suo carattere. Faceva
vagabondare lo sguardo sulla scrivania: l'evidenziatore arancione, un
mucchio di graffette, il suo cellulare con sopra la penna, il
portafoglio di pelle nera, i post-it rosa, un calendario 2011 di una
ditta sconosciuta, una cartellina di plastica rossa, un giornale di
annunci vari. Poco più in là il solito sacchetto di plastica con
dentro il pranzo microondabile, lo spazzolino, il dentifricio, la
forchetta e un frutto. Ogni giorno si portava dietro sempre lo stesso
sacchetto. Forse era meglio fare una pausa. Si, ci voleva proprio uno
stacco. Come un automa prese verso il bar all'angolo a poche decine
di metri dall'ufficio, il solito in cui andava tutte le mattine più
o meno a quell'ora in compagnia di tre o quattro colleghi. Stavolta
però era solo. Pioveva forte ma non se ne curava. Il giubbotto aveva
il cappuccio ma l'aveva lasciato abbassato. A capo chino e con lo
sguardo spento contava lungo il tragitto le cicche di sigaretta, le
cartacce, le bottiglie e le altre schifezze gettate per strada. Alzò
la testa solo per entrare nel bar. Gli sembrò che tutti smettessero
di fare le loro cose per mettersi a fissarlo. Indugiò un attimo
sull'uscio e sentì salire alla testa un getto di rabbia caldo. Il
suo sguardo era furioso, avrebbe voluto incenerire tutti quegli
stronzi con i loro cornetti bloccati a mezz'aria e la loro spregevole
espressione ebete. Ordinò con tono sprezzante cappuccino e
bombolone. Che giornata di merda! Tutte a lui erano capitate:
l'imbecille in macchina che gli era stato sotto il culo per un'ora
lampeggiando e strombazzando e che poi l'aveva sverniciato col dito
medio fuori dal finestrino; quel mezzo scemo all'edicola che urlava
come un ossesso inveendo non si sa bene contro chi o cosa; per
finire, ciliegina sulla torta, quel commento pesantissimo del suo
capo riguardo una relazione da lui consegnata giorni prima.
Centellinò il cappuccino e mangiò il bombolone a piccoli morsi, in
silenzio. Ogni tanto qualche rivoletto di crema gli cadeva sui jeans.
Ma a lui non importava. In testa aveva un ronzio continuo e non
riusciva a pensare a nulla che lo distogliesse dalla rabbia. Gli
balenarono alla mente i fucili da caccia di suo zio, in garage.
Sapeva usarli e sapeva dov'erano le chiavi della rastrelliera: sotto
il vaso dei gerani. Sulla parete di fronte campeggiava una grande
fotografia di una spiaggia tropicale, con un mare cristallino, un
cielo così azzurro da sembrare finto, finissima sabbia bianca e una
gigantesca palma proprio al margine sinistro. Sotto la palma si
intravvedeva un'amaca con sopra un ragazzo biondo di spalle che si
godeva beatamente un mojito. Due tre settimane prima magari avrebbe
invidiato quel ragazzo e desiderato di essere su quell'isola a
prendere il sole e correre dietro alle ragazze. C'erano stati momenti
in cui l'azzurro di quel cielo e di quel mare da favola sarebbero
potuti essere intollerabili. Ora non più. Adesso era troppo tardi.
Aveva superato quel confine. La foto non evocava nulla in lui, lo
lasciava del tutto indifferente. Era come guardare il muro vuoto.
Gettò un'occhiata all'orologio: era ora di tornare al lavoro, non
voleva altre ramanzine. Mentre rientrava con la coda dell'occhio si
accorse del barista che si sbracciava e urlava frasi sconnesse,
qualcosa con “...gare...conto...pezzente...ladro”. Avvertì una
strana sensazione. Di colpo non riconobbe più la lingua in cui si
esprimeva . Eppure prima al bar l'aveva sentito discutere di calcio,
di auto, di programmi TV e ne seguiva perfettamente i discorsi, i
suoi e quelli di tutti gli altri stronzi che lo fissavano e ce
l'avevano con lui. Concluse che il barista avesse cambiato
nazionalità e non gli diede peso. Succede a volte. Vai dal salumiere
giù all'angolo, ordini salsicce e costarelle in italiano e lui te le
serve apostrofandoti in ungherese. Un collega gli aveva raccontato
che ad un suo amico era successa proprio la stessa cosa. Non poteva
preoccuparsi anche di quello, aveva cose urgenti da fare lui, doveva
lavorare, office, excel, presentazioni power-point; veloce, forza,
che arriva la scadenza e se no niente paga e niente promozione.
Almeno l'ufficio era silenzioso quella mattina, aveva bisogno di
concentrarsi e di solito sembrava di stare al mercato. Di questo era
grato ai colleghi, perché lo capivano, capivano la delicatezza del
periodo che stava attraversando e si sforzavano di non fare casino,
per lasciarlo quieto a lavorare in pace. Per questo rivolse a tutti
quelli che incrociava larghi sorrisi e cenni di saluto. Nessuno li
ricambiò. Strano, pensò, prima sono gentili e stanno in silenzio,
poi fanno gli stronzi e non salutano. Forse allora sono tutti
stronzi. Anche i suoi colleghi sono stronzi come la gente al bar. La
gente che lo fissava. Ce l'avevano con lui. Magari i colleghi
fingevano di essere gentili ma alle sue spalle tramavano con gli
avventori del bar. Ecco perché lo fissavano. Chissà cosa avevano
detto di lui i colleghi: delle volte che indugiava troppo al bagno,
di quando era inciampato e aveva rovesciato una risma di fogli per
stampante, o di quando parcheggiando aveva sbattuto contro i bidoni
della spazzatura e aveva visto dalla vetrata che tutti dentro
l'ufficio lo additavano e ridevano. Ma lui non se l'era mai presa.
Aveva sempre abbozzato, fatto buon viso a cattivo gioco, come si
dice. Ad ogni modo non era il caso di prendersela. Non valeva la pena
farsi il sangue amaro, d'altronde era sempre stata una persona molto
equilibrata. Riprese posto alla sua scrivania, questa volta deciso a
terminare con successo il lavoro lasciato in sospeso. Via,
rimboccarsi le maniche e pedalare! Una penna, non trovava più la
sua, gli serviva una penna. Ah, eccola, che sbadato: l'aveva
conficcata nel collo del suo vicino di scrivania. La estrasse di
scatto e il sangue zampillò copioso, schizzandogli in faccia e sul
monitor. Ne leccò un po' che gli colava dalla guancia e con la mano
cercò di pulire il monitor. Ma lo schermo era nero. Non c'era più
il verde di excel, con le tabelle e i grafici a torta. Guardò il
case per terra, di fianco alla sedia e si accorse che il cavo
dell'alimentazione era staccato. Non l'aveva staccato lui. O forse
non se ne ricordava. Ma il computer l'aveva acceso quella mattina? Di
nuovo lo assalì quel vago senso di stordimento che aveva avvertito
quando il barista aveva cambiato nazionalità. Trasalì al frastuono
delle sirene rosse e blu e dello stridere di pneumatici. Non poteva
lavorare in quelle condizioni. Pazienza, avrebbe recuperato
l'indomani. Sistemò meticolosamente gli oggetti sulla scrivania,
accostò per bene la sedia e raccolse il suo sacchetto di plastica.
Un'ultima occhiata prima di tornare a casa. L'ufficio era
splendidamente silenzioso. I corpi erano disposti in maniera
appropriata: le sagome si abbinavano perfettamente all'arredamento,
per nulla turbando le invisibili geometrie del suo sublime disegno.
Ne era soddisfatto. Sospirò e chiuse la porta dietro di sé.
Da giorni ormai perdeva le nottate a
spulciare tra le righe di quell’antico manoscritto. L’altra notte
era andata via la luce in tutto il palazzo e come al solito non era
riuscito ad adoperare una candela o una torcia. Ma non si era dato
per vinto e aveva continuato imperterrito il suo studio matto e
disperatissimo. E anche oggi eccolo lì, accomodato sul grande divano
giallo in sala, curvo sull’imponente tomo in pelle anticata dal
titolo “Metempsicosi e ciclicità dei flussi vitali”. Non aveva
mai notato tutta quella sporcizia fra le piastrelle del pavimento.
Avrebbe dovuto rinfacciarlo a sua moglie ogni volta che gli rompeva
le scatole; quante litigate per le patatine e le briciole su quel
divano quando gozzovigliava con gli amici davanti al favoloso plasma
da sessanta pollici! Eh, bei tempi quelli! Erano altri tempi...era un
altro tempo. D’un tratto una macchietta grigia attraversò la
stanza e si fiondò sul terrazzo attraverso il piccolo pertugio
lasciato dalla porta-finestra non del tutto chiusa. Nonostante la
concentrazione non poté resistere, si gettò all’inseguimento e in
men che non si dica aveva ghermito l’ambitissima preda. L’avrebbe
lasciata sul lettone matrimoniale per quando la moglie fosse tornata
a casa, per farle vedere quanto bene pulisse la casa; lei che gli
dava continuamente dello scansafatiche, si lamentava sempre di fargli
da serva e si vantava delle sue strabilianti doti di massaia. Gongolò
al pensiero della faccia che avrebbe fatto: sarebbe rincasata a
minuti. Tornò al libro. Non riusciva a trovare l’inghippo.
Qualcosa evidentemente non aveva funzionato, ma non capiva cosa. Non
se ne faceva alcun accenno. Forse il suo era un caso unico. Il primo
caso. Sentì il rumore di passi familiari sul selciato e dopo qualche
minuto quello della chiave nella toppa. Una donna sulla sessantina
fece capolino sull’uscio con due grosse sporte della spesa e una
vaporosa acconciatura bionda.
-Ciao Felix! – l’apostrofò –
guarda un po’ cosa ti ho portato? – e tirò fuori un barattolo di
whiskas. Si alzò di scatto dal libro, arricciò il muso, salto giù
dal divano e sprofondò le vibrisse nella ciotola che la moglie aveva
appena fatto in tempo ad appoggiare a terra. La donna prese
l’elegante porta-ritratto in cristallo sopra il mobile lì
all’ingresso. Come ogni sera lo contemplò per qualche istante poi
lo baciò. Una lacrima le solcò il viso. Il gatto smise di mangiare,
tutto assorto ricambiò il suo sguardo e le rivolse un supplichevole
miagolio. Non si faceva illusioni, dopo tanti anni ormai non sperava
più che lei se ne accorgesse. La donna lo accarezzò distrattamente,
posò la cornice e si lasciò cadere sul divano, stanca e triste.
CERN di Ginevra, 21 Dicembre 2012, ore 12:21
Il professor Alberto Istano percorreva
a grandi falcate il lungo corridoio. Era raggiante. Cercava di
immaginare le decine di articoli e di pubblicazioni su tutte le
riviste più importanti, già vedeva la sua foto su Science.
Aveva dedicato a quel progetto dieci anni della sua vita, dodici ore
al giorno recluso sotto terra. Ogni tanto qualche neon sul soffitto
diventava intermittente. Finalmente la dottoressa Martini, la giovane
carinissima Elisa si sarebbe accorta di lui invece di perdere il suo
tempo dietro a quell'incompetente di Adolfi e alla sua cretina teoria
delle stringhe. Una teoria cretina per uno scienziato idiota: tutto
quadrava, formula perfetta. Le stringhe sì...ma figuriamoci...perché
allora non corde di violino, o di chitarra...?!; manco fossero dei
musicisti! Che idiozie. Adolfi da ragazzo doveva essersi fatto
parecchie canne strimpellando Battisti nei falò estivi sulla
spiaggia. Ma adesso tutto il mondo si sarebbe dovuto ricredere.
L'altro ieri aveva visto la Martini guardare di nascosto Adolfi
mentre lui scarabocchiava alla lavagna le sue equazioni strampalate.
Lo stesso Adolfi che si era fermamente opposto all'esperimento
prospettando il rischio di un buco nero che avrebbe potuto fagocitare
tutta la Terra. L'aveva sgamata, se ne era accorto. D'ora in poi
quegli sguardi sarebbero stati solo per lui. Doveva pensare a una
seratina romantica con Elisa, l'indomani l'avrebbe invitata a cena.
Già la vedeva arrossire e rispondere un timido sì con quei suoi
occhioni azzurri dietro le spesse lenti. Avrebbero mangiato pesce,
non voleva badare a spese: vino bianco frizzante fra i più pregiati
(lui era un intenditore, aveva il diploma di sommelier), tagliata di
tonno, frittura e per finire le immancabili ostriche con champagne.
Spinse con forza il pesante portone d'acciaio ed entrò nella immensa
sala-comando dell' HLC. Tutti erano già lì ad attenderlo. Gli altri
ricercatori erano in piedi disposti a semicerchio, tutti con lo
stesso camice bianco, la stessa targhetta identificativa appesa al
taschino e la stessa cartellina rossa sottobraccio. Alberto Istano
respirava a pieni polmoni il suo momento di gloria. Da otto giorni
non aveva fatto altro che ripassare col suo team lì riunito tutte le
fasi dell'esperimento. Gli undici scienziati più capaci del pianeta
avevano ricontrollato puntigliosamente tutte le formule, le equazioni
e i grafici. Le menti più brillanti di questo universo si erano
arrovellate dibattendo la questione fino al limite del conoscibile e
del sopportabile. Adesso l'ultimo atto di quell'opera sublime,
l'ultima tessera di quel celestiale mosaico spettava a lui, Alberto
Istano. Non si era mai sentito in tutta la sua vita così euforico e
così potente. Avrebbe voluto che quel momento fosse eterno. Per un
attimo ammise l'esistenza di Dio. Lui era Dio. Non giocava a fare
Dio, era Dio. Dondolava lo sguardo tra l'Adolfi e la Martini, a
dominare lui e corteggiare lei. Mi dispiace caro Adolfi, il tuo
fisico giovane e sportivo deve inchinarsi alla maestà della
sovrumana trascendente sapienza. L'atmosfera era tesissima. Tutti
guardavano e aspettavano lui. Istano si sedette al pannello di
controllo. Espirò profondamente e lentamente. Qualcuno dei
collaboratori sudava freddo. Il grosso bottone rosso al centro del
quadro esigeva di essere premuto. Era il momento. Istano allungò con
prudenza la mano e posizionò solennemente il palmo sopra il bottone.
Si voltò furtivo a cercare Elisa. Lei abbassò impaurita lo sguardo.
Premette il bottone. Un attimo, fermi tutti: ma se la massa del muone
3-Gamma è inferiore a y/π3+1/4...forse
allora la soglia di energia critica potrebbe effettivamente generare
un buco nero che inghiottirebbe in un istante l'intero pianet
Erano stati i tre mesi più
strabilianti della sua vita. Erano volati, come sempre forse in
questi casi. Una cosa simile non l'avrebbe mai e poi mai immaginata.
La moto da enduro si arrampicava lesta su per la collina. Sorrideva
mentre si gustava l'acuto gracchiare della sua Aprilia. Un vento
leggero aggirava il casco aperto e gli carezzava il viso. Ai lati
della stradina ripida e sconnessa scorrevano le macchie verdi dei
cespugli e quelle gialle delle mimose. Il cielo era terso. Era
felice. La primavera stava sbocciando, come il suo nuovo amore. Tra
poco l'avrebbe incontrata. Amor vicit omnia, è proprio vero:
tutti quelli che l'hanno provato ve lo confermeranno. Potete
scomodare i classici greci o latini, potete consultare Freud:
troverete che l'innamoramento ha effetti prodigiosi, è quel “sole
caldo che guarisce tutti i mali”, come cantavano i Nomadi. Si
sentiva così, potentissimo e felice, libero e padrone del suo
destino come non mai.
Lei lo aspettava seduta sulla riva del
laghetto. La giornata era splendida e l'arrivo della bella stagione
la inebriava. Una brezza gradevolissima increspava impercettibilmente
lo specchio d'acqua e scompigliava sommessamente le fronde dei lecci
e dei cipressi tutto intorno. Ripensò alla prima volta che si erano
incontrati. Era febbraio, forse. Faceva freddo e pioveva forte.
All'improvviso la spaventò un rumore acutissimo, come un urlo e un
attimo dopo una moto saltò fuori da un cespuglio e scivolò
malamente sul fango. Il pilota atterrò bruscamente a pochi passi da
lei, per poco non finì nel lago. Lì per lì ebbe paura per la sua
vita. Ricordò il sollievo, l'amarezza e la tenerezza che provò
quando si accorse che l'uomo era vivo, ma rimaneva a terra, il casco
mezzo sommerso nella melma, a mescolare lacrime e pioggia.
Guardava con trepidazione l'orologio.
Mancava poco ormai. Da dietro un albero puntava il binocolo in
direzione del lago e scrutava la stradina bianca e polverosa che
scendeva dalla collina.
Si divertiva a strapazzare la sua RX.
Quella moto aveva quasi vent'anni ma lo emozionava ancora, anzi
adesso che la guidava come per distruggerla era la fine del mondo.
Infilava le marce senza frizione e si fiondava nelle curve a gomito
scalandone anche tre assieme, tanto il due tempi non aveva freno
motore. D'un tratto intravvide un bellissimo prato fiorito là in
basso. Poco dopo era di nuovo in sella, con una rosa bianca per il
loro anniversario, a tutto gas dalla sua bella.
Eccolo, come ogni giorno era arrivato,
puntuale. Li spiava da dietro l’albero, sporgendosi dal tronco il
minimo indispensabile per non essere scoperto.
Le sorrise e le porse la rosa. – Per
te, per noi, per il nostro anniversario. – Ma dai, sono solo tre
mesi – si schernì la fanciulla. Si sedettero in riva al lago, lui
si fece serio serio e prese subito la parola – Ascoltami bene, devo
dirti tante cose, cioè non tante ma molto importanti. Scusami sono
emozionato, è difficile. – Lei ascoltava assorta, gli strinse le
mani e gli sorrise. – Lo so che ci conosciamo da poco – proseguì
lui –magari mi dirai che è troppo presto, che è una cosa
avventata. Ma nella nostra situazione…già siamo abbastanza
strani…non trovi? – Lei abbassò lo sguardo e una folata
improvvisa agitò il prato in lunghe onde – Boh, forse è presto,
forse sono avventato…forse sono pazzo…ma a questo punto… in
questa situazione…la verità è che non mi sono mai sentito così.
Dopo tantissimo tempo finalmente sto bene. Sì, sto bene. Non avevo
mai incontrato una ragazza come te… - Sorrisero entrambi, lei lo
baciò- Dai, lo so, non dire nulla – continuò lui – Ti amo. Ti
amo e voglio stare con te. – Lei stava per intervenire ma lui la
bloccò subito appoggiandole un dito sulle labbra – No, dai, fammi
finire. So cosa vuoi dire, cosa stavi per dire. Voglio stare con te a
tutti i costi. Al diavolo mia moglie. Mi dispiace solo per i miei
figli, ma tra poco saranno grandi e potranno decidere da soli se
vedermi o no. A loro voglio bene, loro mi mancano. Ma non rinuncerò
mai a te.
-Io sono legata a questo luogo, a
questo lago. La primavera è alle porte, ma ti ricordi
quest’inverno…non posso…non voglio chiederti questo. – Un
gabbiano planò sul pelo dell’acqua, il sole si perse dietro un
grosso nuvolone bianco.
-Ho deciso. – Lui le sorrise e la
baciò, a lungo questa volta.
- Chissà cosa verrà a fare tutti i
giorni qui da solo…mah…sempre a quest’ora… - pensò il tizio
nascosto dietro l’albero – adesso cosa fa?! Parla pure da
solo?!...Bah…è scemo secondo me…
Le
tempie gli pulsavano tremendamente. Il dolore divenne molto presto
insopportabile. Istintivamente cercò di sollevare la mano destra.
Qualcosa la bloccava. Schiuse a fatica le palpebre, anche gli occhi
erano intorpiditi. Intorno a lui fluttuava un magma grigiastro, si
vide inchiodato ad una scranna sospesa su un precipizio.
Una settimana prima…
Sorrideva seduto al bancone del bar. Si
voltò ad osservare i clienti. Un ragazzino coi capelli lunghi e
delle cuffie enormi era immerso in un tomo di fisica: probabilmente
uno studente. Non lo vedeva in faccia ma aveva lo sguardo spento, ci
avrebbe scommesso. L’omaccione di fianco a lui invece era
incazzato. La camicia a quadri rossi e blu, canottiera nera sudicia
di manate bianche, ingurgitava un enorme sfilatino lattuga e
prosciutto e trangugiava una Peroni ghiacciata: un muratore di
sicuro. Nel tavolino vicino alla vetrata una coppietta discuteva
animatamente. Lui si sbracciava anche se tentava di non alzare la
voce, si vedeva chiaramente che era molto agitato. Lei non diceva
nulla, teneva lo sguardo basso sulla sua tazza di tè annuendo di
tanto in tanto. Magari si sarebbero lasciati di lì a poco.
Cavalcando quel pensiero si concentrò sui capelli biondi, lunghi,
sottili, sul golfino bianco, sull’allettante collana d’argento,
sul pendaglio a cuoricino e sulla scollatura che faceva intravvedere
un seno gentile ma sensuale. Pelle bianchissima, classica bellezza
finlandese. Si distrasse un attimo immaginando come provarci, ma
subito tornò ad invaderlo quel caldissimo senso di superiorità. Si
sentiva quasi un dio fra gli uomini. La cosa che lo inebriava di più
era che nessuno poteva nemmeno lontanamente intuire il suo segreto.
Negli occhi degli altri vedeva il riflesso della sua vita sfolgorante
e compativa di contro le loro misere esistenze. Gettò un’occhiata
alla sua Maserati parcheggiata lì davanti in corrispondenza dei
fidanzatini litigiosi. Tornò sullo studentello: avrà avuto, quanti?
Due, tre, cinque anni meno di lui…?? Beh, anche fra dieci anni
sicuramente non si sarebbe potuto permettere una supercar come la sua
Gran Turismo. Estrasse di qualche centimetro dalla tasca il suo
iPhone, giusto per vedere al volo che ora fosse. Le cinque. Decise
che era ora. Richiamò la barista con un gesto appena percettibile e
ordinò un espresso. Gli occhi gli si accesero mentre contemplava la
minuscola tazzina fumante. Un potere così grande in un oggetto così
piccolo. Lo bevve tutto d’un sorso, si scottò la lingua e il
palato, ma non ci fece nemmeno caso. Aspettò qualche istante che i
fondi si calmassero. Fece un respiro profondo. Si guardò intorno con
circospezione. Prese il telefonino, armeggiò velocissimo sul display
e in men che non si dica avviò l’applicazione “Caffeomanzia”.
Si guardò intorno una seconda volta, con diffidenza ed apprensione.
Si concentrò al massimo in modo da avere la mano più ferma
possibile e scattò una foto alla tazzina di caffè. Il software
elaborò qualche istante e infine diede il responso: una stella, vale
a dire “cambiamenti positivi”. Si alzò di scatto e inforcò
l’uscita ma proprio sulla porta si imbatté e lievemente sbatté
contro una ragazza che stava entrando. Le caddero diversi fogli
protocollo che spuntavano dalla borsetta. – Scusi – borbottò
distrattamente mentre la ragazza era intenta a radunare i fogli sul
marciapiede – Stia più attento! – lo apostrofò acida la
sconosciuta ma non appena alzò lo sguardo il tono si ammorbidì e da
dietro le lenti eleganti un guizzo attraversò due splendidi occhi
verdi . Di colpo sembrava un po’ meno arrabbiata e un po’ più
turbata – Non fa niente dai – sussurrò lievemente imbarazzata –
No, scusami invece, sono un cretino, ti aiuto a raccogliere – I due
si trovarono faccia a faccia accovacciati, le mani si sfiorarono;
galeotto fu il foglio protocollo. Il rombo della Maserati squarciò
l’aria mentre il fortunato ragazzo accompagnava a casa la sua nuova
fiamma.
Pian piano la stanza intorno a lui prendeva forma. Era in un
seminterrato. Da una finestrella lurida e scheggiata intravvedeva il
via vai dei passanti. Tutto intorno piastrelle bianche. Era legato
mani e piedi ad una pesante sedia di metallo, gelida. Raccolse le
forze ancora esigue e tentò di liberarsi ma le corde erano
strettissime e come se non bastasse c’erano molti giri di spesso
nastro isolante a rinforzarle. Lo stesso nastro isolante gli
comprimeva in gola una matassa di stracci maleodoranti. A terra erano
disseminati parti anatomiche, brandelli di carne e grumi di
poltiglia sanguinolenta. Di colpo ricordò tutto: la cenetta
romantica a casa di Laura, l’avvocatessa cui solo una settimana
prima aveva sbattuto in faccia la porta del bar e infine il caffè.
Era uscita la “Foglia”, “entrate di denaro”. Gli sovvenne di
come fosse capitato in quel negozio di telefonia insolitamente
deserto. Di come con grandissima sorpresa avesse trovato il
registratore di cassa aperto e straripante di contante. Di come dopo
aver atteso a lungo si fosse deciso ad intascare il malloppo. Il suo
iPhone era appoggiato in piedi su un tavolo alla sua destra. Un’icona
arancione lampeggiava forsennatamente e anche da dov’era poté
leggere: “Opzione alternativa Serpente – Cercheranno di
nuocervi”. La porta si aprì lentamente e ne entrò un energumeno
in passamontagna che senza dire una parola, con passo flemmatico
prese da un cassetto un vecchio seghetto arrugginito.
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