La
stanza era scarna, in linea con la sobrietà smorta e decadente di un
bunker post-atomico: un tavolo e due sedie, il tutto rigorosamente in
acciaio. Il commissario Rigoni osservava pensieroso il sospettato
dalla parete a specchio adiacente alla sala interrogatori. “Che ne
pensi?”, sibilò. L'ispettore Bianchi era perplesso quanto lui.
Aspirò una lunga boccata dalla marlboro e soffiò lentamente il
fumo. “Penso che questo mestiere mi porterà alla tomba, ecco che
ne penso”, sorrise amaramente, “è la ventesima da stamattina!”,
sbottò poi spegnendo con rabbia il mozzicone. Il posacenere tintinnò
pesantemente. “Secondo te dice la verità?”, chiese Rigoni
sconsolato. Bianchi ormai non si preoccupava più di recitare la
parte dello “sbirro cattivo” e poteva anche lui concedersi una
leggera afflizione. Attaccò quindi con voce fiacca e demoralizzata:
“Sono dieci ore che lo torchiamo. Guardalo... è nervoso, se la fa
sotto... osserva le mani... e come si guarda in giro spaesato. Per me
non sta mentendo... certo che se quella è la verità...”
“Hanno
trovato solo la testa. Nessuna impronta digitale sopra. Aveva addosso
il sangue della vittima. Le orme erano confuse. Cristo! E' un
ragazzino, quanti anni ha? 17...?”, chiese il commissario
continuando ad osservarlo.
“18
appena compiuti”, rispose l'ispettore sfogliando il fascicolo e
ingurgitando frettolosamente un sorso del loro caffè da sbirri,
lungo, freddo e insipido. “ Manca il movente. Ma è l'unico
sospettato e non c'è niente e nessuno che lo scagioni. L'ultimo ad
aver visto viva la vittima... Questo caffè è un altro chiodo sulla
mia bara!”, sbuffò giocherellando col pacchetto di sigarette. “Ne
ho visti di psicopatici nella mia carriera...”, continuò,
“individui capaci di fare a pezzi la madre, metterla in lavatrice e
pasteggiare a ostriche e champagne mentre rimirano estasiati il
vorticare del cestello; gente che poi ti guarda con due occhi da
cerbiatto... innocenti come pargoli, che se non li avessi sorpresi
coperti di sangue, col coltello a mezz'aria, a mangiare pezzi di
cervello dal cadavere ancora caldo avresti scommesso che non
c'entravano! Schizofrenici e sociopatici per tutti i gusti, assassini
nati o per divertimento, per noia, per miliardi e miliardi di motivi
quante sono le rotelle sballate nel loro cervello schifoso e
putrido!”. Si passò una mano fra la folta chioma brizzolata e
sospirò prendendosi il viso fra le mani. “Ma lui no”, riprese,
“non è questo il caso. Sarebbe il più grande figlio di puttana di
tutti i tempi, che prende per il culo due agenti pluridecorati con
trent'anni di carriera!”
Rigoni
si staccò dal vetro e alzò gli occhi al grande oblò ingiallito:
erano quasi le due di notte. Per un attimo sperò che Bianchi gli
battesse sulla spalla e gli dicesse “Per oggi basta dai, andiamo a
casa, riprendiamo domani”. Si vergognò subito per quel pensiero.
Quel ragazzo di là si giocava la vita. Forse era innocente, ma per
come stavano le cose sarebbe di certo stato condannato: ergastolo.
Sedette di fronte al collega, si fece scivolare il dossier sotto il
naso e lo aprì con gesto energico, volutamente plateale. “Dunque,
cosa abbiamo: ricapitoliamo! Vediamo di nuovo la dichiarazione
dell'imputato”
Bianchi
annuì, si accese l'ennesima sigaretta e cominciò: “Ieri l'altro,
la sera di domenica 10 giugno l'imputato riceve una telefonata dalla
vittima, un suo amico...”, scolò gli ultimi sorsi di brodaglia
alla caffeina e si sgranchì collo e braccia dondolandosi sulla
sedia, “...che gli propone di vedersi al solito pub. Sono le dieci.
I tabulati e le triangolazioni dei cellulari confermano posizione e
orario... 32 secondi, una chiamata breve: plausibile. I due si
incontrano fuori dal pub e senza perdere tempo ordinano due birre e
si mettono al tavolo in fondo, vicino alla finestra, quello più
appartato”.
“Esatto”,
continuò Rigoni, “l'imputato... Roberto ha detto che Stefano,
l'amico, non voleva che nessuno sentisse, era molto agitato, molto su
di giri”.
“ Il
tossicologico però è risultato negativo, vero?”
“Si,
niente droghe, era pulito”
“Bene,
andiamo avanti”, sentenziò Bianchi.
“Ok,
ecco... qui c'è
il fatto... l'amico,
la vittima, gli dice di aver visto uno gnomo sotto l'arcobaleno”.
Rigoni fece una pausa. Bianchi sospirò, ma si sforzò di non
tergiversare. “Avete verificato il meteo?”
“Si,
giornata soleggiata; aveva piovuto dalle dieci alle undici nella zona
della presunta tana, in via Stroppato”
“Si,
la conosco, è in campagna, c'è una discarica nelle vicinanze”
“Esatto,
Stefano ci era andato in moto, per fare un po' di fuoristrada, ci
andavano spesso. Testuali parole: Stefano mi dice di aver visto un
nano uscire da un buco sotto l'arcobaleno. Era vestito di pelli,
secondo lui era uno gnomo. Sapete cosa si dice degli gnomi e degli
arcobaleni...”
L'ispettore
e il commissario si scambiarono un cenno d'intesa. Bianchi intanto
accendeva la quinta sigaretta dalla fine dell'interrogatorio.
“Eggià”, sussurrò, “la pentola d'oro. Va avanti”
“Ok”,
rispose Rigoni, “Stefano convince Roberto a tornare sul posto il
giorno dopo, ieri sera. Come d'accordo ci si recano in moto, alle 23
e 30 circa. La Yamaha YZF 250 della vittima è stata ritrovata poco
distante”
“Abbiamo
testimoni che confermino gli spostamenti dei due soggetti fino a
questo momento?”
“Si,
la madre di Stefano per l'uscita del figlio di domenica mattina e i
genitori di Roberto per quella di lunedì, la sera dell'omicidio.
Erano in casa. Hanno sentito un colpo di clacson e il trillo del
cellulare dal piano di sopra. Il padre ha scostato le tendine e ha
visto chiaramente Stefano che aspettava davanti al vialetto
d'ingresso col motore acceso. Roberto in tutta fretta è saltato in
sella (la sua Suzuki la tiene sempre parcheggiata nel giardino) e ha
seguito l'amico. Ecco, quello che sappiamo per certo finisce qui. Da
qui in poi solo lui sa la verità”
Bianchi
e Rigoni guardarono all'unisono al di là del vetro. Il ragazzo stava
immobile e composto sulla sedia, i gomiti sul tavolo e le mani
intrecciate a sorreggere il mento.
“Andiamo”,
disse Bianchi risoluto, “voglio parlarci ancora una volta”
Come
entrarono nella stanza, Roberto trasalì e schizzò in piedi quasi in
lacrime. “Come devo dirvelo??! Non l'ho ucciso io, sono
innocente!”, urlò. I due agenti presero posto in silenzio di
fronte a lui, a braccia conserte.
“Calmati.
Raccontaci tutto un'altra volta. Da quando siete arrivati alla...
tana. Dai, forza.”
Dai
loro sguardi Roberto capì che come lui cercavano la più piccola
speranza, il più piccolo pretesto per sovvertire un verdetto già
scritto. Ne fu straordinariamente stupito e commosso. Contro i mulini
a vento. Era spacciato, ma almeno non era solo. Quei due erano lì
con lui alle tre di notte, in quello stanzino squallido. Anziché
essere a letto con le mogli magari. Forse erano persone oneste. Forse
erano gli scudieri più indicati per quella battaglia e lui non
doveva cedere proprio adesso. Calma e sangue freddo! Un lungo respiro
e concentrazione. Raccontare tutto nel modo più preciso ed esaustivo
possibile, finché c'era ancora qualcuno disposto ad ascoltare.
“Siamo arrivati lì verso le 11 e 40. In via Stroppato. Abbiamo
spento le moto un chilometro prima per non farci sentire. Le abbiamo
spinte fino allo stradino, le abbiamo appoggiate contro la montaletta
e abbiamo continuato a piedi. Ci siamo arrampicati per la salitella e
siamo arrivati sul prato. Non c'era nessuno, naturalmente. Avevamo
due torce. Siamo andati a quel buco. Stefano è entrato per primo.
Stava davanti a me. L'apertura era piccola, ci si passava carponi e
ci si stava giusti giusti. Dopo una ventina di metri che scendevamo
giù ripidi siamo arrivati a un grande spiazzo pianeggiante. Era una
stanza sotterranea più ampia. Ci siamo messi in piedi, il soffitto
sarà stato alto tre metri. Illuminavamo con le torce ma non c'era
nulla. Cercavamo qualcosa che assomigliasse alla pentola, un
contenitore qualsiasi. Poi è sbucato.”
“Lo
gnomo?”, chiese Rigoni.
“Non
so cosa fosse. Di certo l'assassino.”
I due
poliziotti si lanciarono un'occhiata preoccupata. Roberto proseguì:
“Doveva esserci un varco nella parete, non si vedeva niente, è
spuntato dalla nostra sinistra, all'improvviso. Si è lanciato senza
una parola su Stefano. Io ero dietro di lui. Gli si è avvinghiato
alla pancia. Gli è caduta la torcia. Era tutto buio. Nel mio fascio
di luce la testa di quel tizio smastricciava la pancia di Stefano.
Grufolava come un maiale. Stefano urlava e si dimenava, vedevo il
sangue che scorreva. Ho gridato lascialo! Ma niente. Mi sono
avventato e l'ho colpito con la torcia. Si è staccato da Stefano,
che è caduto a terra, e si è voltato verso di me. L'ho visto bene
per qualche secondo. Aveva la statura di un nano, ma il volto... non
so se era deforme o se era un animale. Non parlava, non ha detto una
parola. Grugniva, tipo.”
“Riusciresti
a descriverlo?”, domandò Bianchi.
“La
faccia era larga, squadrata. I capelli erano radi e lunghi fino alle
spalle. Tutti unti, lerci. Anche la faccia era sozza. Di terra credo,
aveva chiazze marroni. I denti erano piccoli e aguzzi. La bocca era
insanguinata, sbavava”. Si fermò un istante e chiese un bicchier
d'acqua. Rigoni incaricò un agente che zelante tornò anche con un
kit kat. Dopo una breve pausa continuò: “Gli occhi erano come
quelli dei cani, marroni e liquidi, con la pupilla molto grande. Non
indossava vestiti, erano peli. Era ricoperto di una folta peluria
marrone, su tutto il corpo. Solo il muso era glabro. E' rimasto fermo
per qualche secondo. Ero impietrito, non sapevo che fare. Si è
lanciato su di me. Correva a quattro zampe. Mi è saltato alla gola e
mi sono ritrovato a terra con quel mostro sopra. Stefano si lamentava
nell'ombra”
“E
come mai non hai ferite o graffi, quella... cosa...
aveva artigli affilati, hai detto nella precedente deposizione...”
“Si,
aveva unghie lunghe, ricurve e taglienti, non ho mentito! Sto dicendo
la verità, cazzo! E' tutto il giorno che dico la verità!”
“Va
bene, stiamo solo cercando di capire”, lo ammansì l'ispettore.
“E'
durato pochi istanti, mi era sopra, come dicevo, e voleva azzannarmi
alla gola. Gli tenevo distante la testa con tutte e due le mani,
avevo i jeans e una maglietta a maniche lunghe, per quello forse non
mi ha graffiato. Io l'ho graffiato invece. Anche se mi faceva
ribrezzo conficcavo le unghie in quella faccia schifosa, gli ho
calzato il pollice in un occhio, volevo cavarglielo! Ho sentito che
affondava nel morbido... Stefano piangeva, non lo vedevo ma era
gravemente ferito. Ho colpito quel mostro con la torcia più forte
che potevo, nell'occhio. Una volta, due, con tutta la rabbia e la
disperazione che avevo in corpo. Ha lanciato un grido, come un
fortissimo ringhio. In un lampo è saltato via. Gli ho puntato la
luce addosso in tempo per vederlo trascinare via Stefano per un
piede, nello stesso varco da cui era apparso. E' stato velocissimo.
Ho illuminato il buco ma niente. Ho chiamato due volte Stefano:
niente. A quel punto che potevo fare? Seguirlo? Senza un'arma? Anche
volendo non l'avrei mai raggiunto. E se là sotto c'erano altri
tunnel... se c'erano gallerie che si snodavano ovunque che fine avrei
fatto?!”
Bianchi
sussultò, il volto gli si era illuminato in un sorriso. I due lo
guardavano stupiti.
“Hai
detto che l'hai graffiato, no?”
Roberto
annuì.
“Dimmi
che non ti sei lavato le mani!”
Ci
pensò un po' su poi scosse la testa. “Purtroppo no, da quando mi
avete prelevato con tutto il casino non ne ho avuto modo...”
“Bene!”,
esclamò Bianchi ad alta voce afferrando il telefono. “Sono
l'ispettore capo Ernesto Bianchi, vorrei parlare col tenente Baldelli
della scientifica... ok... Baldelli? Corri qui in sala interrogatori,
c'è del DNA che ti aspetta!”
Mezz'ora
più tardi un signore sulla cinquantina, alto, corpulento e
leggermente stempiato faceva il suo ingresso con aria seccata. “Ma
lo sai che ore sono?!”, apostrofò Bianchi prima ancora di salutare
Rigoni con un cenno del capo.
“Si,
scusa, ma è urgentissimo! Fammi questo favore, ti offro una cena,
dai!”
“Aggiudicato!
Venerdì sera, pesce! Il locale lo scelgo io, ti faccio sapere”,
sorrise Baldelli appoggiando la valigetta con gli attrezzi sul tavolo
e aggiustandosi le piccole lenti rettangolari. “Facciamo pesce del
più prelibato, con vini più che adeguati... però voglio i
risultati prima di ieri, ok Baldo?”, ammiccò l'ispettore.
“Ok,
affare fatto!”
Mentre
si stropicciava gli occhi Bianchi controllò che sua moglie non si
fosse svegliata. Sul comodino il cellulare vibrava irradiando una
luce tremula. Gettò un'occhiata alla sveglia: le tre e mezza. Spense
il telefono e sgattaiolò dal letto e dalla stanza con passo felpato,
fissando la moglie che girata su un fianco russava sommessamente.
Quando fu al sicuro in cucina, chiuse la porta e controllò le
chiamate ricevute: era la centrale.
“Ho
i risultati”. La voce di Baldelli era incerta.
Poi
solo un lieve fruscio di fondo.
“...
allora? Su, forza, non tenermi sulle spine!”
“Il
DNA non è umano”
“E
di che animale è?”
Altro
vuoto di esitazione.
“Non
te lo so dire. Nessun tipo di animale conosciuto.”
Bianchi
abbozzò un sorriso: “Forse i mulini a vento non sono poi così
imbattibili”.
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