Informazioni e notizie su tutto quello che scrivo, che faccio e che mi accade (anche per sbaglio).
mercoledì 18 dicembre 2013
Schegge per un Natale Horror: Ecco i vincitori!
Quattro mie "schegge" nell'ebook in pubblicazione più il "premio originalità", non male come bottino direi :-)
http://letteraturahorror.it/concorsi-progetti/49-schegge-per-un-natale-horror/1134-schegge-per-un-natale-horror-ecco-i-vincitori.html
martedì 19 novembre 2013
Concorso "Schegge per un Natale Horror"
Votate i miei racconti sul sito di Letteratura Horror ! :-)
https://www.facebook.com/LetteraturaHorror?fref=ts
Finora le mie schegge in totale sono 19:
1) Il vaccino
2) Il ladro di bambini
3) Il cenone della vigilia
4) Buon Natale!
5) Babborg Natale 2.0
6) Il BOOM! degli acquisti
7) Amori proibiti
8) Natale mannaro
9) Trip di Santo Stefano
10) Torna papà, torna!
11) Natale meccanico
12) Pupazzo-ammazzo
13) Ispirazione imprevista
14) Nella vecchia fattoria
15) Buone Fesss... te!
16) La messa di Natale
17) Scuolabus per l'inferno
18) L'elfo grigio
19) Progetto Sobek
venerdì 1 novembre 2013
"Halloween all'Italiana" - Svelati i vincitori e i racconti selezionati per l'ebook
Non ho vinto, ma il mio racconto "Il vecchio reduce" è fra i 50 ( su 124 ) selezionati per l'ebook, sono contento lostesso :-)
http://letteraturahorror.it/concorsi-progetti/42-halloween-all-italiana/1016-halloween-all-italiana-svelati-i-vincitori-e-i-racconti-selezionati-per-l-ebook.html
giovedì 31 ottobre 2013
Concorso Metro D'oro Edizioni
Un concorso a cui sto partecipando :-)
http://metrodoro.wordpress.com/2013/10/30/la-festa-di-halloween-di-salvatore-di-sante-pesaro-e-urbino/#more-325
giovedì 10 ottobre 2013
Concorso "IoRacconto 2013"
http://www.ioracconto.it/ narrativa.html
Sono finalista nella sezione "Narrativa senior Bambini/Fantasy/Fantascienza"
martedì 1 ottobre 2013
PREMIO NAZIONALE LA LUNA E IL DRAGO V EDIZIONE - IL VIAGGIO
"Gentile Autore la presente per comunicarLe che il Suo racconto è stato selezionato dalla Giuria e inserito nell'Antologia dal titolo: "Il Viaggio metafora di vita", realizzata dal Caffè Letterario La Luna e il Drago"
lunedì 16 settembre 2013
sabato 10 agosto 2013
mercoledì 31 luglio 2013
Risultati concorso "Voci dal vortice"
https://sites.google.com/site/sadastorwebsite/voci-dal-vortice/edizione-2012
Terzo posto! E andiamo... ma vieeniiiii!!!!! :-DDDDDDDD
Terzo posto! E andiamo... ma vieeniiiii!!!!! :-DDDDDDDD
domenica 14 luglio 2013
I finalisti di "Fantasia 3000"
Altra piccola soddisfazione, dal concorso "Fantasia 3000".
Il mio racconto è "L'unicorno che cacciava alieni".
"[...] Data la selezione pesante, mi permetto inoltre di segnalare
alcuni racconti meritevoli che, pur non essendo entrati a far parte dei
finalisti, si sono giocati il posto fino all’ultimo. Anche agli autori
di questi testi vanno dunque i complimenti della giuria: Aghi, La
goccia, L’unicorno che cacciava alieni, Marianna va in Irlanda, Orsi e
donne, Piombo.
Il motivo per cui ho menzionato questi racconti non è
dare un semplice “contentino”, ma un invito sincero a continuare per
questa strada: proseguendo di questo passo, infatti, magari anche in
iniziative esterne al Verdecammino, potrete ottenere grandi
soddisfazioni. :)"
http:// verdecammino.forumcommunity.net /?t=54750775#entry383136064
venerdì 28 giugno 2013
Il tunnel delle Fiabe Sbagliate
Maria assistette alla scena allibita,
con le lacrime agli occhi.
“Tra i biglietti venduti non risulta
quello di sua figlia”, sillabò il poliziotto con voce monotona e
distaccata.
La donna balbettò qualcosa tentando
istintivamente di richiamare i due agenti che stavano salendo in
auto.
“Sara aveva scritto il nome sul suo
biglietto”, bisbigliò, “un biglietto rosa...”
Ma quelli misero in moto senza
profferir parola e l'auto di pattuglia riprese apaticamente la strada
fino a sparire all'orizzonte.
Non poteva crederci. Non voleva
andarsene ma non sapeva cos'altro fare, a quel punto.
Con la coda dell'occhio vide il
turbante azzurro dell'ipnotizzatore scomparire dietro le gabbie dei
leoni.
Il giostraio sputò lo stuzzicadenti e
le rivolse un ghigno sprezzante. Si passò le mani sudice sulla
canottiera e rimase immobile a fissarla. “Vede signora, sua figlia
non è mai entrata in quel tunnel. Non l'ho mai vista. Si sbaglia,
gliel'ho già detto”, la incalzò.
Maria sentì montare una vampata di
collera. Poi qualcosa si mosse fra i cespugli intorno, un verso
proruppe dalle scure chiome delle querce e d'un tratto realizzò di
essere sola. In un bosco, di notte. Sola di fronte a un losco
individuo.
La luna era offuscata. Ogni tanto una
folata calciava via cartacce e lattine fra l'erba spelacchiata. Lo
sguardo del giostraio mutò. Non era più beffardo, era minaccioso
ora. “Vada via”, diceva quello sguardo, “non c'è niente che le
sia amico qui”.
E difatti non c'era. Maria tornò al
parcheggio quasi di corsa. La sua monovolume le sembrava l'unico
posto sicuro, al momento. Aveva bisogno di pensare senza allontanarsi
da lì.
Vide le luci del circo spegnersi una
dopo l'altra. Sagome grigiastre e curve spingevano le gabbie sotto i
tendoni. Finché tutto fu silenzio.
Raccolse il peluche della figlia dal
sedile a fianco: una tartaruga gialla con due enormi occhi azzurri da
cartone animato. E si sciolse in un pianto convulso.
Sara... scomparsa. Gliel'avevano
rapita. Cosa fare se nemmeno la polizia poteva aiutarla? Da chi
andare?
Accese il motore sgasando e partì
sgommando, coi fari che bucavano la boscaglia.
“Maria... dai, lo sai, hai visto che
ore sono? Ti ho detto di non chiamar...”
“Sì sì lo so. Non è per noi. E'
per Sara.”
Sandro si riscosse e si staccò dalla
parete mettendosi in ascolto bello dritto. “Cos'è successo a
Sara?”
“Non al telefono. Vieni a casa mia.
Verrei lì io, ma c'è Livia...”
“La mia compagna fa parte della mia
famiglia. Devi accettarlo, Maria. Il giudice ha detto...”
“Non m'importa adesso! Nostra figlia
è...” urlò Maria. “Scusa...”, continuò poi più pacata.
“Scusa. Sì sì, lo so. Tranquillo. L'ho superata ormai. E' giusto
che tu faccia la tua vita. Doveva andare così. D'altronde i
matrimoni si sfasciano tutti i giorni, no? Comunque, non è questo.
Sara...”
“Si è fatta male? Dimmi!”, esclamò
Sandro preoccupato.
Dall'altro capo del telefono giunse un
sospiro.
“Vieni qui, Sandro. Ti racconterò
tutto.”
Entrò trafelato, in pantaloni del
pigiama e maglietta bianca. Aveva ancora una copia delle chiavi,
anche se a breve avrebbe dovuto restituirla. Maria lo aspettava
seduta al tavolo con due tazze di caffè fumanti. Quando Sandro si
accomodò iniziò subito a raccontargli della serata.
Quello strano circo. Sara tutta
entusiasta all'idea di vedere i clown, e i leoni e le giraffe.
Quel maledetto tunnel delle “Fiabe
Sbagliate”. Sara che entrava e che non sarebbe più uscita.
Il giostraio equivoco. I poliziotti in
trance che fingevano di sfogliare una mazzetta inesistente di
biglietti, alla ricerca di quello rosa con su scritto “Sara” e un
cuoricino...
L'uomo più forte del mondo che aveva
sollevato un elefante e demolito un'auto a calci e pugni.
E sembrava tutto vero. Il mago che
aveva “clonato” un volontario dal pubblico.
“Erano gemelli. D'accordo con quelli
del circo... mettono dei complici sugli spalti”, obiettò Sandro.
“Uno guardava l'altro come fosse un
fantasma. E l'altro si guardava le mani e si toccava come stupito di
essere al mondo, pallido come un morto. Dovevi vedere Sandro...
dovevi esserci... sembrava tutto vero. Troppo vero...”, disse Maria
con un filo di voce e gli occhi sgranati.
Sandro rimase in silenzio, sorseggiando
il caffè giusto per non starsene con le mani in mano.
“L'avranno già portata via. Chissà
dove... Cosa possiamo fare?”, implorò Maria.
“Se non sbaglio il circo riparte
domani l'altro, giusto?”
Maria annuì.
“A quel che mi dici la polizia è
fuori gioco. Allora stanotte ci vado io.”
“Vengo anche io.”, esclamò Maria.
“A te ti conoscono, invece a me anche
se mi beccano non possono collegarmi a Sara. E' meglio così. Se è
scomparsa in quel tunnel, mi ci intrufolerò. Non è passato molto
tempo, magari è ancora lì dentro. E poi tocca a me: è pericoloso e
sono suo padre.”
Le sorrise, fermo sull'uscio, col
fucile a tracolla. I loro sguardi si incontrarono come non succedeva
da anni.
Acquattato fra i cespugli Sandro
ispezionava lo spiazzo del circo col binocolo a infrarossi, un
souvenir di quando era nell'esercito. Nessuna attività. Il cielo era
plumbeo e illune. Non tirava un filo d'aria. Giunse indisturbato fino
all'ingresso, due alti pali di legno che reggevano un telone su cui
campeggiava in giallo la scritta “CIRCO”.
Strano che non ci fosse un nome o un
cognome. “CIRCO” e basta.
Imbracciò il sovrapposto1,
tenendo occhi e orecchie ben aperti. Si aspettava di venir assalito
da un branco di leoni o dall'uomo forzuto che gli scagliava contro un
fuoristrada; o da un gruppo di clown inquietanti che piroettando e
saltando gli lanciavano una pioggia di coltelli.
Ma non successe nulla di tutto questo.
Sotto i tendoni artisti e animali dello spettacolo ronfavano
all'unisono.
A un tratto, mentre si guardava intorno
pensieroso, gli saltò all'occhio: il tunnel delle “Fiabe
Sbagliate”, dove la parola “Sbagliate” era stata aggiunta a
mano, con la vernice che ancora colava, mentre “Fiabe” era
stampata in eleganti arzigogoli dorati. Proprio come descrittogli da
Maria. L'ingresso era incustodito.
All'interno del tunnel lo spazio si
dilatava in modo abnorme, sfociando in un bosco non dissimile da
quello all'esterno, con alberi ad alto fusto cupi e spettrali.
Il trenino, abbandonato, era
arrugginito e danneggiato in più punti. Non c'erano rotaie su cui
potesse scorrere.
Sandro impugnò saldamente il fucile e
si addentrò , spiato da mille occhi invisibili e dai sussurri del
vento fra le fronde.
Una scia rossa saettò davanti a lui,
facendolo trasalire. Intravvide un mantello volare a filo d'erba,
rapido come un battito di ciglia. Con circospezione ne seguì le
tracce fino a una casetta in legno. Dal comignolo un rivolo di fumo
grigio si sfilacciava pigramente sotto una luna diafana.
Attirato da un brusio costante si
accovacciò sotto la finestra. Due voci gli giungevano chiare.
“Nonnina, che orecchie grandi che
hai...”
“Per sentirti meglio, nipotina
mia...”
“Nonnina, ma che occhi grandi che
hai...”
“Per vederti meglio, nipotina mia...”
“Nonnina... lo so che sei il lupo!”
Poi dentro si scatenò il finimondo:
urla, latrati, tonfi, roba che andava in pezzi...
Sandro sfondò la finestra e irruppe.
Quella che sembrava una ragazzina con
la mantellina scarlatta si drizzò sul letto, staccandosi
dall'ammasso peloso, con la bocca e il viso lordi di sangue.
“Filetto di lupo alla tartara, vuoi
favorire?!”, gli urlò contro trasfigurata in un ghigno animalesco
e demoniaco.
Sandro si precipitò fuori spalancando
la porta con un calcio e mettendosi a correre a perdifiato.
La ragazzina intanto si era ributtata a
capofitto sulle viscere della carcassa, saziandosene perversamente.
Ansimando, seduto sotto un albero,
Sandro guardava ancora in direzione della casetta, incredulo e
scioccato.
“Presto che è tardi presto che è
tardi!”
Un coniglio trotterellava verso di lui
controllando ossessivamente un orologio da taschino.
Avanzava in posizione eretta. Indossava
un elegante panciotto grigio, portava un monocolo e calzava un
cappello a cilindro.
“Presto che è tardi presto che è
tardi!”, ripeteva zampettando.
D'un tratto una fucilata gli fece
saltare la testa, troncando a metà anche la frase.
Sandro sussultò. Si mise in piedi, ma
stando ben attento a non sporgersi dal tronco dell'albero.
Una bambinetta con le treccine avanzava
a passo spedito, con una doppietta aperta appoggiata sulla spalla.
Sulla maglietta spiccava la scritta “Alice rules”.
“Adesso non è più tardi, hai tutto
il tempo che vuoi, schifoso!”, esclamò la ragazzina sputando sulla
testa del coniglio rotolata a qualche metro dal corpo martoriato.
Sandro calpestò inavvertitamente un
ramo secco. La bimba ricaricò la doppietta in un lampo e fece
esplodere una nuvola di corteccia. Sandro si gettò a terra finendo
allo scoperto.
“Ah ah tana per te! Chi diavolo
sei?”, berciò la marmocchia.
Sandro non riuscì a rispondere nulla
.“Alice nel paese delle meraviglie...”, sussurrò pensando ad
alta voce.
“Io sono Alice, ma questo è lo
stronzo paese delle meraviglie!”, urlò puntandogli contro il
fucile.
“Guarda, c'è lo Stregatto!”, gridò
Sandro indicando alle sue spalle.
“Dove cazzo è?”, farfugliò Alice
pronta a sfracellarlo di pallettoni.
Approfittando dell'attimo di
distrazione le fu addosso. Con una mano bloccò la doppietta
puntandola a terra e con l'altra le sferrò un tremendo diretto in
pieno viso.
Alice cadde all'indietro senza fare un
fiato, col naso ridotto a una poltiglia sanguinolenta e la mascella
probabilmente fratturata.
“Papà papà!”, Sara gli corse
incontro sbucando da un cespuglio e gli saltò al collo.
Sandro la strinse forte, chiudendo gli
occhi. “Sara...! Dov'eri finita? Cos'è successo?”
“Durante il giro sono caduta dal
trenino”, spiegò in lacrime. “Andava veloce, prendeva le buche,
saltava... sono caduta fuori. Ho trovato una casetta e mi sono
riposata un po' lì dentro. Poi sono arrivati tre orsi, mi sono
spaventata e sono fuggita nel bosco. Ho sentito gli spari, ti ho
visto e... papà che hai fatto? L'hai uccisa?!”, disse poi
singhiozzando più forte, guardando ora Sandro ora Alice riversa a
terra.
“No... ehm...”, farfugliò Sandro,
“ diceva le parolacce. Ecco. Diceva un sacco di parolacce. Non si
dicono le parolacce... d'accordo piccola?”
Sara annuiva, bianca come un lenzuolo,
gli occhi sbarrati e colmi di paura.
E così uscirono dal tunnel, Sara in
braccio al papà, e senza incontrare altri ostacoli tornarono a casa
da Maria, che li accolse piangendo di gioia.
Il giorno dopo quel misterioso circo
scomparve senza lasciare traccia e non se ne seppe più nulla.
Maria e Sandro si riavvicinarono. Lei
gli permise di farle visita più spesso, con la scusa di sbrigare
piccole riparazioni domestiche. Da cosa nacque cosa e... vissero per
sempre felici e contenti.
Un po' meno Sara, che a causa degli
incubi (sognava suo padre che fracassava teste di bambini) divenne
dipendente dagli psicofarmaci. In compenso però non disse mai più
una parolaccia in vita sua.
1Fucile
da tiro, con le canne una sotto l'altra, a differenza della
doppietta, che ha le canne una di fianco all'altra.
Alan, il crononauta
2007-BA.
Ridottissima serie di numeri e lettere. Una sigla innocua, il posto
di un parcheggio, la denominazione di una proteina, la
classificazione di un libro in biblioteca.
Ma 2007-BA era il nome della
morte. Un asteroide. Per l'ennesima volta il destino del pianeta
dipendeva da un pezzo di roccia.
Un meteorite aveva originato
il nostro satellite, la Luna; un altro aveva provocato l'estinzione
dei dinosauri. Col susseguirsi degli studi, dei calcoli e delle
simulazioni si ipotizzò inoltre che anche dietro le glaciazioni o
gli sconvolgimenti climatici più eclatanti ci fossero sempre degli
asteroidi; senza contare gli ettari di foreste bruciate o i villaggi
semidistrutti.
E adesso questo. 17 Dicembre
2116: la data di scadenza della Terra. Fra tre settimane.
La tecnologia non permetteva
di disintegrare il meteorite in sicurezza: anche impiegando missili a
testata nucleare si sarebbe sbriciolato in frammenti più piccoli ma
ugualmente letali, una terrificante pioggia di fuoco e fiamme.
L'evacuazione non era
un'alternativa perché con un diametro di 20 Km e un peso di 2.000
miliardi di tonnellate la devastazione sarebbe stata totale, sia che
impattasse al suolo che in mare.
Si stimò che sarebbe caduto
nell'Italia Centrale, alla velocità di 290.000 Km/h.
L'unica via di scampo non
era quindi nello spazio, bensì nel tempo.
A differenza dei viaggi
intergalattici, rimasti pura utopia, il viaggio nel tempo era
possibile.
La notizia non fu mai
divulgata e nessuno ne fece mai uso ufficialmente. Il Governo si
adoperò per insabbiare l'avvenimento e mantenere una segretezza
pressoché assoluta. Per questo non sono note le circostanze esatte
in cui si svolse l'esperimento, né si conoscono l'inventore del
dispositivo o i membri dell'equipe che lavorò al progetto.
Ora però quello stesso
Governo, (composto dai leader delle dieci maggiori Potenze), riunito
in un bunker sotterraneo attrezzato di ogni lusso e comodità, stava
pianificando una trasmigrazione temporale.
Inizialmente si pensò di
trasferire un ristretto numero di persone in un punto imprecisato del
futuro. Molti obiettarono che non fosse moralmente corretto salvare
pochi prescelti (fossero anche le menti più brillanti), lasciando
morire sciami di moltitudini inconsapevoli. Gli scienziati
sollevarono dubbi anche sulla direzione da prendere lungo la linea
temporale: non più nel futuro, magari un futuro di polveri e miasmi
letali da respirare per secoli o milioni di anni, ma nel passato, che
sembrò d'un tratto più a portata di mano, per così dire, più
vicino e più comodo, in quanto noto.
Il cronotraveler, il
dispositivo per viaggiare nel tempo, era individuale, delle
dimensioni e delle sembianze di un orologio da polso. Ne esistevano
un centinaio. Si digitava gg/mm/ (+ o - ) aaaaaa (giorno, mese e
anno, prima e dopo Cristo) e premendo il pulsante invio si veniva
spediti alle coordinate indicate. Si poteva anche memorizzare una
data di default verso cui si veniva indirizzati premendo il pulsante
reset.
Restava da testarlo a dovere
e individuare l'epoca più opportuna dove trasferirsi.
E proprio di questo si stava
occupando il nostro protagonista, il viaggiatore designato che
chiamerò Alan. Scelsero per iniziare l'anno 1975 D.C., un'epoca
recente e quindi avanzata tecnologicamente, e relativamente
tranquilla in quanto posteriore al secondo conflitto mondiale. Ogni
volta poi, al sopraggiungere di 2007-BA sarebbero tornati indietro.
Avevano tre settimane per trovare l'anno più opportuno. Impostarono
come default il giorno corrente, dotarono Alan di armi e kit di
pronto soccorso e l'avventura iniziò.
15/06/001975. Il problema
della macchina del tempo era che non si sapeva mai dove ti avrebbe
teletrasportato: in fondo al mare, in una grotta al centro della
Terra, in mezzo alla strada nell'ora di punta; in America, Asia,
Oceania, sospeso in aria, in caduta libera dalla ionosfera... Per
fortuna impostando il default si poteva fissare, oltre alle
coordinate temporali, anche il luogo corrente, il posto dove ci si
trovava in quel momento: in questo caso il laboratorio del bunker
segreto nell'anno 2116, un luogo sicuro dove tornare.
Invio. Alan venne
smolecolarizzato e si ricompose con un tenue bagliore, perturbando
l'aria circostante. Al suo apparire uno strano quadrupede trasalì e
rimase impietrito, scomparendo poi nella boscaglia con rapidi balzi.
Non riuscì a inquadrarlo nello scanner ma le macchie bianche sul
manto marrone gli suggerirono che doveva trattarsi di un daino, un
mammifero estinto da decenni che aveva visto nell'enciclopedia
olografica.
Con un semplice tocco attivò
il localizzatore che aveva al polso: Cesane, monti – Pesaro Urbino
– Marche – Italy. Era in mezzo a un bosco, non scorgeva sentieri
né anima viva. Armò la pistola disgregatrice e procedette in
esplorazione. D'improvviso si sentì percorso da potenti vibrazioni e
da un languido senso di nausea. Sul display del cronotraveler al
polso sinistro lampeggiava in rosso la scritta “failure”.
In preda al panico premette
e ripremette il tasto reset ma lo scenario non cambiava. Le
vibrazioni e il lampeggiare continuavano. “Failure”, finché la
macchina del tempo emise tre forti bip e lo smaterializzò
sfilacciandolo nel vortice spazio-temporale.
Atterrò malamente su una
landa brulla e desolata, cadendo da circa due metri, per fortuna
senza conseguenze. Il terreno era coperto da una polvere grigiastra e
ampi crepacci si aprivano qua e là.
All'orizzonte si stagliava
un imponente muro verde: vegetazione, alberi probabilmente.
Cercò di svegliare il
localizzatore ma il display era morto. Il cronotraveler era sempre in
“failure”.
Non
compariva nemmeno il tastierino per immettere una data.
Il
visore sul casco captò del movimento e proiettò sulla visiera
direzione e distanza. Una croce al centro di un cerchio lampeggiava e
bippava sempre più insistentemente quando ci si avvicinava al
bersaglio, mentre un calcolatore digitale incrementava o diminuiva la
distanza del soggetto o dell'oggetto in movimento. Il sibilo divenne
continuo e penetrante in direzione dei boschi all'orizzonte. Comparve
un frenetico conto alla rovescia che partiva da 900 metri.
800-700...
Imbracciò il fucile laser che teneva a tracolla e ne azionò le
cariche fotoniche.
600...
sentiva la terra tremare sotto i suoi piedi.
500...
le fronde si agitavano nella boscaglia in lontananza.
Una
sagoma scura apparve all'orizzonte. Zumò. Ancora. Ancora. 5X. Un
tirannosauro stava correndo verso di lui. Aveva qualcosa sulla
schiena. Zoom. Non era qualcosa, era qualcuno. Un uomo, un ominide.
Una sella coi finimenti.
Alla
velocità con cui procedeva l'avrebbe raggiunto in pochi secondi.
Fece rientrare la visiera e puntò il fucile ormai completamente
carico.
L'enorme
rettile si fermò a pochi metri da lui, impennandosi alla tirata di
redini del cavaliere e spalancando le fauci in un ringhio cavernoso e
brutale.
L'ominide,
di carnagione olivastra, aveva il viso tozzo e con un forte
prognatismo. I capelli erano neri, radi e lunghi e brandiva una
lancia dal manico in legno e dalla punta in selce.
Alan
avrebbe potuto carbonizzarli all'istante, ma esitò un attimo di
troppo. Non aveva mai ucciso nessuno, e in più era sconcertato da
quella visione: un conto era osservare la proiezione di un T-Rex su
un olobook di storia e un conto era trovarselo a un palmo dal naso.
L'ominide
scagliò la lancia. Alan la schivò scartando di lato, ma non poté
evitare che il sauro gli triturasse un fianco sferrando un morso con
insospettabile velocità.
Accecato
dalla vista delle carni straziate e sanguinanti, fece fuoco. Un
raggio di luce rossa disintegrò i due riducendoli a un cumulo di
cenere. Il morso gli aveva strappato via mezzo addome. Si accasciò a
terra tenendosi la pancia. Le viscere eruttavano come serpenti a
molla compressi in una scatola, schizzandogli sulla mano copiosi
fiotti caldi. Gettò il fucile, si sfilò dalle spalle lo zainetto e
tirò fuori il kit d'emergenza.
Ebbe un
mancamento, la vista si affievolì. Frugando affannosamente estrasse
un cilindro nero grosso quanto un candelotto di dinamite. Premette il
bottone all'estremità finché un led rosso non divenne verde.
Ricacciò dentro le budella urlando a squarciagola e spruzzò sulla
ferita una patina gelatinosa. Il medi jet agiva in trenta secondi.
Era un rigeneratore organico. Nebulizzava nanoparticelle combinate a
molecole di DNA, guarendo e ricreando i tessuti danneggiati. Il
meccanismo si ispirava alle stampanti 3D del XXI secolo, usate anche
per sintetizzare cibo nei paesi africani ai tempi della Grande
Carestia del 2063.
Si alzò
in piedi rimirando la miracolosa guarigione, tastandosi quasi con
riluttanza la porzione d'addome da cui poco prima fuoriusciva una
cascata di visceri sanguinolenti. Ma non poté assaporare in pace
quella sensazione: il cronotraveler aveva deciso che era tempo di
saltare di nuovo nella centrifuga.
Azionò
prontamente la chiusura ermetica del casco e la riserva di ossigeno
iniziò a entrare in circolo. Annaspava per riemergere, fortemente
impedito dalla tuta spaziale che però almeno lo isolava
termicamente. L'acqua del fiume doveva essere gelata. Appena fu a
galla fece rientrare la visiera, respirando a pieni polmoni e
gettando occhiate tutt'intorno. Lo sovrastava un maestoso castello.
Il ponte levatoio era alzato e si ergeva ripiegato proprio di fronte
a lui. Scorse una macchia scura farglisi incontro. Alla sua destra
occhieggiò una fila di squame. Si alzò qualche spruzzo. Disintegrò
il primo coccodrillo proprio mentre gli saltava addosso a fauci
spalancate. Le acque ribollirono al contatto col raggio laser,
richiamando altre frenetiche chiazze subacquee. Alan sparò
all'impazzata intorno a sé finché la spia di alimentazione della
pistola iniziò a lampeggiare. Brandelli d'alligatore galleggiavano
ovunque: tranci di ventri mollicci e verdi squame legnose.
Ansimando
si issò sull'argine, lasciandosi cadere sull'erba soffice. Doveva
calmarsi e riprendere fiato. Nuvole spumose come meringhe
attraversavano calme il cielo.
Il
sensore di movimento non segnalava pericoli. Il cronotraveler non
dava segno di vita, col display penosamente muto e i pulsanti che
suonavano ciocchi; ma si sarebbe rianimato all'improvviso, lo sapeva,
per gettarlo a casaccio in qualche spirale dimensionale.
Sospirando
si rimise in piedi. Il ponte levatoio, sulla facciata del castello,
sembrava una bocca e i finestroni affrescati erano gli occhi. Sui due
torrioni ai lati sventolavano bandiere gialle e blu con un leone
rampante incorniciato da uno scudo. In mezzo correva una fitta
merlatura. Non c'era passaggio di sentinelle nei camminamenti di
guardia. Azionando il jet pack sorvolò in un batter d'occhio
l'anello d'acqua infestata e atterrò molleggiando davanti al ponte
levatoio, quell'immensa bocca lignea imbronciata. Fece il giro delle
mura, quando un grido stridulo lo costrinse ad alzare lo sguardo.
“Siete
dunque giunto a salvarmi, prode cavaliere?”
Una
fanciulla meravigliosa si sbracciava dall'alta torre, calando dalla
finestra una lunghissima treccia bionda che arrivava quasi fino a
terra. La inquadrò nel visore e ingrandì: gli occhi di un
ammaliante turchese, le guance accese di tenue rossore. Una
sensualità acerba e irresistibile.
Volle
rispondere qualcosa ma fu ricacciato furiosamente nel vortice e
risputato in un altro prato, in un altro tempo. Questo però era un
giardino, a giudicare dalla cura delle siepi e del manto erboso. Un
giardino cosparso di variopinti alberi da frutto e gruppi di cespugli
bassi ingemmati di more e lamponi. Una brezza leggera accarezzava le
chiome e il fogliame, spandendo un aroma vellutato di vaniglia e
miele. Nella donna che gli veniva incontro credette di riconoscere la
fanciulla del castello, tanto era bella; di una bellezza surreale,
fiabesca. E per di più completamente nuda. I capelli castani
ricadevano in ampie volute sulle spalle aggraziate e sui seni bianchi
e morbidi. La donna fissava Alan meravigliata dello strano
abbigliamento, ma non impaurita. Nel suo sguardo si leggevano
curiosità e innocenza.
“Io
sono Eva”, gli disse avvicinandosi fino a toccare un lembo della
tuta spaziale. Ne saggiava la consistenza e disorientata passava a
paragonarla alla sua graziosa nudità.
“Io
sono Alan”, bisbigliò incredulo. Stava per aggiungere “piacere
di conoscerti”, ma la frase gli sembrò quantomai fuori luogo e gli
si strozzò in gola.
Nel
frattempo, come se seguissero la padrona, tantissimi animali, delle
specie più diverse, accorrevano dai dintorni e si avvicinavano
tranquillamente. C'era qualcosa di insolito. Nell'aria aleggiavano
quiete profonda e una serenità quasi inebriante. Il leone non
bramava la gazzella che gli saltava leggiadra al fianco, la gazzella
non si preoccupava del leone che ruggiva sommessamente. Ed era lo
stesso fra tigri e stambecchi, tra leopardi e conigli, tra orsi e
volpi. Arcobaleni nascevano all'improvviso fra un laghetto e l'altro,
rimbalzando nelle fontane adorne di statue.
“Dove
siamo?”, domandò Alan.
In
risposta udì dei passi giganteschi alle sue spalle. Allibito si
voltò e prese a far scorrere lentamente lo sguardo sui sandali
ciclopici, su per le gambe, lungo il saio bianco fino al cordone
stretto in vita che si perdeva fra le nuvole...
Una voce
echeggiò cavernosa e perentoria, ma rassicurante e salvifica al
tempo stesso.
“Questo
è il Paradiso Terr...”
E di
nuovo tutto per Alan si perse nei frammenti di quel vorticoso
fagocitare. Come una scheggia impazzita turbinava nel tunnel
psichedelico tempestato di lampi e scariche elettriche, attendendo
sconsolato la prossima meta.
Trascorsero
così ancora sei lunghi mesi, spesi a vagare soffertamente per epoche
remote e future, in un peregrinare insensato e sfibrante. Il cibo in
pillole si stava esaurendo, ne aveva al massimo per un paio di
settimane. Aveva imparato che la sua tecnologia era impotente contro
la magia e gli incantesimi: se l'era vista brutta nel reame di elfi e
fate, quando, scambiatolo per un invasore, per poco non l'avevano
tramutato in rospo; per fortuna la regina Liael aveva indovinato le
sue pacifiche intenzioni e l'aveva risparmiato, regalandogli anche un
sacchetto di monete d'oro. Di ritorno nel suo mondo sarebbe stato
ricco. Se mai fosse tornato.
Un bel
giorno, nell'ottobre del 1944, mentre si trovava in Germania sotto i
bombardamenti, il cronotraveler funzionò di nuovo. Così, di punto
in bianco, accadde e basta: premette reset per la milionesima volta,
non sperandoci nemmeno più, e invece si ritrovò nel laboratorio da
dove era partito sei mesi prima. Solo che era deserto. Il
cronotraveler aveva sbagliato di qualche minuto. Doveva
approfittarne. Rubò un altro cronotraveler dalla cassaforte a
parete: come alcuni degli scienziati coinvolti nel progetto conosceva
la combinazione, anche se nessuno avrebbe dovuto. Sentì dei passi in
corridoio. Di sicuro era l'altro se stesso, con tutti i colleghi, che
si accingeva a lanciare l'esperimento da lui appena concluso. Su un
foglio scrisse in tutta fretta, a caratteri molto grandi: “VA BENE
IL 1975. BUONA FORTUNA. ADDIO. ALAN” e lo sistemò sotto il monitor
del pannello di controllo centrale. Appoggiò sopra la scrivania
anche il gruzzoletto di monete donatogli dalla regina delle fate.
Sarebbero servite di certo più a loro che a lui. Senza farsi notare
sgattaiolò fuori dalla stanza e accovacciato sotto l'ampia vetrata
li sentì vociare confusamente a proposito del suo messaggio e
dell'oro. Strisciò dentro un altro laboratorio, fortunatamente vuoto
anche quello.
Ogni
cronotraveler conteneva una scatola nera che registrava tutte le
coordinate spazio-temporali raggiunte. Anche se il display era fuori
uso, forse le informazioni erano state conservate. Collegò il
dispositivo a un elaboratore diagnostico e soffocò a stento un urlo
di gioia quando sullo schermo iniziarono a scorrere righe e righe di
giorni, mesi e anni. Trasferì i dati nel nuovo cronotraveler appena
rubato, scelse la destinazione e dette invio.
“Prode
cavaliere, siete dunque tornato per salvarmi?”, gridò la fanciulla
dalla lunghissima treccia, prigioniera nell'alta torre.
“Invero
sì, madamigella!”, esclamò Alan azionando il jet pack e
librandosi in volo fino alla sua finestra.
“Non
temete mia signora, vi salverò io. Reggetevi a me”, disse mentre
la teneva stretta, sospesa per aria.
“Io
sono Alan. Qual è il vostro nome di grazia, mia signora?”
“Raperonzolo”,
rispose spaventata.
“Bene,
Raperonzolo, fidatevi di me”, disse Alan impostando di nuovo il
cronotraveler e sparendo con lei nel gorgo temporale.
“Coraggio
Eva... assaggiala! E' buonissima vedrai...”, sibilò il serpente.
Eva si
guardava intorno perplessa, cercando Adamo per chiedere consiglio.
Incalzata dal serpente alla fine si decise. Accostò con titubanza il
pomo rosato alle labbra. Al momento del morso però gettò un grido,
osservando la mela sgretolarsi in uno sbuffo di fumo, colpita da un
accecante raggio rosso.
“Ehi
tu! Chi sei, cosa credi di fa...”, urlò il serpente ma Alan lo
fulminò con un altro colpo di pistola.
“Grazie
straniero, per un pelo!”, tuonò il gigante in sandali e saio
accorrendo trafelato con Adamo al seguito.
“Come
ti chiami e chi è la fanciulla?” continuò la possente voce da
sopra le montagne.
“Io
mi chiamo Alan, Signore, e questa è la mia ragazza, Raperonzolo.
Volevamo chiederLe il permesso di stabilirci qui. Le giuro che siamo
entrambi brave persone e seguiremo i Suoi insegnamenti senza
disubbidire”, esclamò guardando Raperonzolo che annuiva
entusiasta.
“Ti
credo Alan. So che siete giovani di buon cuore. In virtù di quello
che hai appena fatto, concedo molto volentieri a te e alla tua
ragazza di vivere qui. In fondo due coppie sono meglio di una. C'è
spazio a sufficienza per i figli che vorrete avere, e per i figli dei
figli, e i figli dei figli ancora...”
lunedì 24 giugno 2013
FANTASIA 3000 - I selezionati della prima fase
Gentile utente del Verdecammino,
ti segnaliamo che sono stati resi noti i titoli dei racconti che hanno superato la prima fase del contest a premi "Fantasia 3000".
http://verdecammino. forumcommunity.net/?t=54587453
Il mio unicorno continua a cacciare alieni... :-)
ti segnaliamo che sono stati resi noti i titoli dei racconti che hanno superato la prima fase del contest a premi "Fantasia 3000".
http://verdecammino.
Il mio unicorno continua a cacciare alieni... :-)
giovedì 13 giugno 2013
"CHI HA UCCISO NINA?" - Raccolta Antologica della collana "Troskij Noir"
Gentile Concorrente,
il suo RACCONTO è risultato finalista del Concorso "CHI HA UCCISO NINA?" ed è stato PUBBLICATO nella I Raccolta Antologica della collana "Troskij Noir", che sarà presentata SABATO 06 luglio aMonterotondo (Rm) dalle ore 18.30 durante la manifestazione cino-letteraria "SOIR en NOIR!" presso l'Ass. Cult. "L'ANGOLO DI AMELIE", via Nazario Sauro, 48 (Centro Storico di Monterotondo) https://www.facebook.com/ angolodiamelie L'Angolo di Amelie - Cineclub, Music & Theatre
mercoledì 10 aprile 2013
Concorso "Storie al sapore di ...cioccolata"
domenica 10 marzo 2013
domenica 3 marzo 2013
Altra piccola soddisfazione!
Gentile Concorrente,
il suo COMPONIMENTO èrisultato finalista del Concorso "MON AMOUR" ed è stato PUBBLICATO nella VIII Raccolta Antologica della collana "Les Cahiers du Troskij Café", che sarà presentata SABATO 06 aprile a Monterotondo (Rm) dalle ore 15.30 durante la manifestazione eno-letteraria "W I ROSSI" presso la BIBLIOTECA COMUNALE "P. ANGELANI"al Centro Storico di Monterotondo nell'ambito della Rassegna Culturale della Montegrappa Edizioni.
giovedì 28 febbraio 2013
Aldilà
Il pulviscolo danzava nel fascio
pallido che ricadeva sul tavolo di legno spesso e grezzo. Fuori dalla
finestra le chiome degli alberi erano squassate dalla tormenta. Nella
penombra scorse diverse cornici appese alla sinistra del camino in
pietra. Cercò di sollevarsi ma una fitta alle costole lo costrinse a
un urlo strozzato. Sollevando le spalle notò che qualcuno gli aveva
steccato la gamba. Gli balenò l'osso che sbucava da sotto il
ginocchio e la sensazione di dolore lancinante. Quando muoveva gli
occhi le tempie sembravano esplodere, come se gnometti fuligginosi e
barbuti gli demolissero la scatola cranica a colpi di mazza e
piccone. Con cautela si passò le dita sulla fronte e sentì una
fasciatura.
Il portone si spalancò e un refolo di
nevischio turbinò dentro.
«Oh,
ciao. Ti sei ripreso.»
Una sagoma alta e sottile irruppe reggendo una fascina di legnetti.
Batté gli stivali sul pavimento fragorosamente, seminando una
distesa di tocchetti bianchi.
«Chi
sei? Dove mi trovo?»
chiese il ferito con un filo di voce.
Il suo ospite appoggiò la legna vicino
al camino e abbassò il cappuccio di pelliccia.
Una cascata di capelli si riversò
sulle spalle. Erano quasi biondi, intervallati da ciocche più scure.
«Mi
chiamo Luca. E questa è casa mia. Ti ho trovato in quel crepaccio e
ti ho portato qui.»
«Io
sono Francesco. Grazie mille per la gamba e per...»
disse indicandosi le bende sul capo.
«Ho
cercato di curarti come potevo... non è granché ma per adesso ti
devi accontentare. I soccorsi non ti ripescano finché dura questo
tempaccio. Ho già chiamato.»
E indicò distrattamente una vecchia radio trasmittente polverosa e
arrugginita.
Mentre Luca armeggiava per ravvivare il
fuoco, la luce della fiamma dardeggiava sulle cornici.
«Sono
i tuoi genitori?» chiese
Francesco.
Le
foto in bianco e nero ritraevano una coppia di vecchietti sorridenti:
seduti su un ceppo in un prato fiorito, mentre passeggiavano in riva
al mare o davanti a una tavola imbandita.
«Potresti
avere un'emorragia interna»
glissò Luca «Dovresti
andare subito in ospedale, ma la
città è a venti chilometri e io non ho una macchina. Vivo qui da
solo.»
«Quelli
siamo io e mia moglie»,
esclamò dopo qualche istante, esitando.
«Metto
su il tè.» aggiunse.
Dopodiché fece una pausa e sospirò: «Va bene, viste le circostanze
voglio raccontarti tutto.» Prese uno sgabello e si avvicinò al
letto.
Francesco
guardava ora le foto ora Luca, con espressione attonita e vagamente
divertita.
«Mi
sono trasferito qui tre anni fa. Dopo la rivelazione.»
esordì Luca.
«Quale
rivelazione? E poi cosa
dici, quello sei tu? E' un vecchio...»
«Appunto.
Io in effetti avrei centosei
anni»
Francesco
scoppiò incautamente a ridere, lanciando subito dopo un grido e
tenendosi la pancia. Luca proseguì come se niente fosse:
«Abitavamo
in campagna. Io e mia moglie. Avevamo un fazzoletto di terra sulle
colline, a ridosso della città. Coltivavamo verdura, allevavamo
polli e conigli. Ogni tanto si ammazzava il maiale coi contadini
degli appezzamenti vicini... insomma tiravamo avanti decentemente.
Anna, mia moglie, se n'è andata sedici anni fa.»
Si
alzò, andò ai fornelli e sistemò un vassoio con due tazzine e una
zuccheriera su una sedia vicino al letto.
Francesco
allungò la mano tremante, Luca lo aiutò delicatamente a sollevarsi
e a bere un sorso.
«E
come mai sei venuto a stare qui, in mezzo al nulla?»
«Adesso
ci arrivo. Un giorno che ero alla sorgente a prendere acqua, ho
trovato questa» ed
estrasse una pietra grigia dal cassetto sotto il pianale del tavolo.
Era rettangolare, grande quanto un portafoglio. La avvicinò al viso
di Francesco, che all'unico bagliore del camino, vi lesse:
Per
te oh pellegrino
che
questa pietra raccogli
ci
son tre desideri per il tuo destino;
Orsù
dunque, la buona sorte accogli!
«Come
primo desiderio ho chiesto di tornare giovane, ed eccomi qui»,
disse indicandosi dalla testa ai piedi.
Francesco
ascoltava in silenzio.
«Era
magnifico avere di nuovo la forza, l'entusiasmo e l'incoscienza dei
vent'anni! Fu una seconda rinascita, una linfa ribollente e pulsante
di mille desideri!»
Mentre
raccontava e ricordava, l'emozione gli illuminava il viso.
«Ho
viaggiato in lungo e in largo. Ho ammirato i panorami più
strabilianti. Ho nuotato nei mari tropicali, volato in mongolfiera,
attraversato deserti a dorso di cammello e dormito sotto le stelle su
isole sperdute. Ma fu il secondo desiderio che mi cambiò la vita.»
Francesco
centellinò l'ultimo sorso di tè, appoggiò la tazzina sul vassoio e
continuò a guardare l'amico con trepidazione crescente.
«Volevo
vedere cosa c'era dopo... dall'altra parte.»
«Dopo
la morte intendi?»
Luca
annuì.
«E
cosa c'era?» sibilò
Francesco con la voce rotta.
Luca
sorrise. «Come posso dire... non si può spiegare...» e rivolse
pensieroso lo sguardo alla bufera che sferzava la finestra.
«E'
una dimensione di puro spirito, l'anima che si libera del corpo?»
lo incalzò Francesco.
«No,
è un luogo reale... non c'è il sole ma il cielo è sempre limpido.
Tutto è beatitudine, calma e pace. Una serenità sovrumana, ecco.
Dopo quell'esperienza, una volta tornato a questa vita, non ho avuto
più bisogno di niente.»
Un
ululato echeggiò in lontananza.
«Bene,
ora che so cosa mi aspetta vado tranquillo, dovesse anche essere
stanotte...», sussurrò
Francesco. Poi chiuse gli occhi e sprofondò il viso nel cuscino.
L'elicottero
sorvolava le cime innevate. La giornata era limpidissima e
soleggiata.
Quando
Francesco riprese conoscenza si ritrovò imbragato a una lettiga.
«Stia
tranquillo, la stiamo portando in ospedale. Lei è un miracolato!»
esclamò uno dei due uomini in camice bianco, urlando per sovrastare
il rumore.
«Luca...
non l'ho ringraziato...»
farfugliò Francesco «volevo salutarlo...»
«Chi
è Luca? Qualcun altro è precipitato nel crepaccio?»
urlò l'omone baffuto di prima.
«No,
Luca... mi ha salvato lui, ero a casa sua...»
balbettò Francesco.
«Signor
Rossi, l'abbiamo estratta da un crepaccio. I suoi amici all'albergo
ci hanno allertati e grazie al GPS del suo telefono l'abbiamo
localizzata. C'era qualcun altro con lei?»
Francesco
si riassopì e si risvegliò in un letto d'ospedale. Indossava un
pigiama, i vestiti della giornata erano buttati su una sedia. Si
portò d'istinto una mano alle tempie. Non sentì garze, né sangue o
ferite di sorta. Sollevò le braccia davanti agli occhi: neanche un
graffio. Mosse le gambe sotto il lenzuolo, dapprima con cautela, poi
energicamente. Non ebbe bisogno di scostare le coperte per capire che
non aveva niente di rotto.
Dalla
tasca della giacca a vento, sullo schienale della sedia, sbucava un
foglietto di carta. Si allungò, lo agganciò con la punta delle
dita, lo dispiegò e lesse: “Il terzo desiderio l'ho dedicato a te.
Ricorda, non affannarti inutilmente, in questa vita; e per quando
sarà (mi auguro il più tardi possibile): stai tranquillo, è
bellissimo dopo. Ciao. Luca.”
Concorso " L'Indice delle Esistenze - Le Passioni "
"Gentile Salvatore Di Sante,
In relazione alla sua partecipazione al Concorso “L’indice delle esistenze – Le Passioni” la Aletti Editore dopo aver visionato il materiale pervenuto in redazione ha deciso di inserire la sua poesia “A Katia” all’interno del libro “L’indice delle esistenze – Le Passioni”.
Il libro sarà pubblicato nell’ultima settimana di Marzo 2013."
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Un piccolo passo per l'umanità, un grande passo per un uomo! :-)
martedì 5 febbraio 2013
Un amore su due ruote e un bloccasterzo di troppo
A pensarci adesso ci rido, ma quella
volta mi sarei sparato.
Ricordo come fosse un secondo fa, la
tremenda frustrazione... e anche la tremenda frustata per terra... la
sera poi ho scaricato un camion con un ginocchio e una spalla
distrutti...
Questa è la caduta, ma torniamo
indietro, vediamo adesso la fase più esaltante, il momento di
gloria, l'apice...
Correva l'anno 1999 e mi sentivo un
leone, coi miei ventiquattro anni, la moto, l'abbraccio travolgente
della primavera e baffi e capelli lunghi come non mai (giusto in
questo periodo ho un attacco di nostalgia, ho litigato di nuovo col
barbiere e non ci tornerò prima di avere un bel codone di cavallo).
Quanto mi manca quella sensazione! La
potenza che ti saliva sottopelle al solo splendere del sole; la
beatitudine alla vista di un prato fiorito, ebbrezza bucolica!
Come non era mio solito, (le cose
migliori capitano sempre quando meno te l'aspetti), avevo deciso di
partecipare a un incontro interparrocchiale, in un paesino
dell'entroterra a cinque minuti di moto da casa mia. Giusto per non
saper cos'altro fare, assolutamente pronto al grigiore più totale. E
invece... la folgorazione!
Eccola che mi appare nello spiraglio
del portone della chiesa, mentre sono impegnato a morire d'inedia su
una panchina del campetto da basket.
Neanche mi avessero preso la testa fra
le ganasce di un defibrillatore! Sono schizzato in piedi e sono
partito all'attacco.
Una cosa così non mi era mai successa,
forse (lo dico con molta prudenza, a distanza di quattordici anni),
era l'unica volta che mi sono innamorato. Ma queste sentenze sono
troppo ardue, sono gli interrogativi maiuscoli dell'infima esistenza
mortale, meglio sorvolare...
Insomma vado spedito verso di lei. Era
con un'amica, (in futuro mi capiterà spesso di puntare una e finire
poi con l'amica... ma bando alle digressioni), tutte e due in piedi
davanti alla tavolata dei dolci, in una stanza dell'oratorio.
Classico ferro di cavallo con tavolini di plastica e tovaglie di
carta, straripante di ciambelloni bicolore, crostate di albicocca o
nutella, californiane, dolci del nonno e caberettini di mignon. Il
tutto innaffiato da Coca e Fanta. La vedo avventarsi su una
piastrella di ciambellone nutellato e colgo la palla al balzo:
«Bisogno di zuccheri, hai carenza
d'affetto?», mamma mia, dovevo essere posseduto... è proprio vero:
l'innamoramento ha la sintomatologia di un trip allucinatorio!
Ma come tradizione vuole, se declami
Leopardi su un bianco destriero al chiaro di luna, vai pure tu in
bianco, che più bianco non si può! Te ne esci invece con una
cretinata trita e ritrita, magari anche buzzurra, ed è la volta che
fai colpo!
Il pomeriggio vola via tranquillamente
scambiando quattro chiacchiere, ma a me basta vederla sorridere,
un'occhiata a quegli occhioni azzurri e ho tutto quello che voglio
dalla vita! (Il Lucano mi dà acidità di stomaco).
Riesco a mantenere un insignificante
barlume di lucidità, quel tanto che basta per sbirciare dove
abitasse... benissimo! Stava in un delizioso villino proprio dietro
la chiesa.
Non ricordo se quella notte ho dormito
o sono rimasto con gli occhi a palla a contare le ombre sul soffitto,
poco importava: il colpo da matto l'ho fatto il giorno dopo.
Anche questa è una cosa unica nella
mia vita, non ho mai più sentito uno slancio così irrefrenabile, né
mi sono mai più annullato così per una ragazza, per muovere quel
passo... come staccarsi dalla roccia, a cinque metri, per tuffarsi
nelle “pozze” di Cagli.
Insomma inforco la moto e vado a
suonarle a casa. Così, senza preavviso... e d'altronde non avrei
potuto, di lei sapevo solo il nome, la via e che era la
diciassettenne più desiderabile di tutti i mondi paralleli
possibili...
«Buongiorno signora, c'è Sara?»
(anche in preda al delirio ero sempre una personcina a modo).
A faccia in su mi rivolgevo a una donna
sui quaranta, mora e snella, che rassettava i panni sul balcone.
Bella la figlia, bella pure la madre.
«Saraaaaa!», urla la mamma senza
troppi riguardi, (nonostante i modi educati sembravo un centauro
fattone, io che non ho mai fumato nemmeno sigarette... ma con quei
capelli e la moto da cross semi sommersa da fango e olio...), «C'è
uno coi baffi che ti vuole!» (ecco la prima delle due frasi epiche
della giornata), bercia squadrandomi con schifo malcelato.
Ma ecco fare capolino un caschetto
castano e quegli occhi, ecco accendersi il bianco del sorriso! Un
colpo di spugna che mi scioglie nel sole e nell'azzurro sopra di lei.
Per tutto il pomeriggio passeggiamo per
il paese, (fortunatamente quasi deserto dato l'afoso lunedì
pomeriggio di giugno), conversando amabilmente del più e del meno.
In realtà io in testa avevo un disco in loop che faceva: guarda
com'è bella e sta qui con te, e che non lasciava molto spazio a
ragionamenti o concetti troppo profondi.
Gira che ti rigira, un po' che avevamo
fatto i solchi nell'asfalto, un po' che si era sull'imbrunire, un po'
che la conversazione, dopo quasi tre ore, accennava a languire,
quando ricapitiamo sulla porta di casa sua conveniamo entrambi che è
ora di salutarsi. E qui arriva la seconda frase mitica, da parte mia
questa volta, meglio di Fonzie! Suonava pressappoco così:
«Senti voglio essere sincero se sono
venuto qui oggi non è per perdere tempo è perché mi piaci e mi
piacerebbe stare con te.». Se le parole non furono precisamente
queste, di certo furono pronunciate con la stessa velocità e
brutalità!
Ma attenzione: come reagisce lei? Se
aveste visto me e aveste visto lei... insomma in un mondo dove ci
fosse giustizia (senza nulla togliere alla superficialità
dell'aspetto fisico), doveva farsi una grassa risata, liquidarmi con
un cenno della mano e lasciarmi lì per strada come un fesso...
Invece mi risponde, con tono calmo:
«Tranquillo, se non mi piacevi non sarei neanche scesa, sono stata
bene a parlare con te»
In quel preciso istante due cose per me
divennero dogmi.
Primo: la teoria delle stringhe era
esatta e mi trovavo in uno degli infiniti universi paralleli.
Secondo: ero persino meglio di Fonzie.
Con questi pensieri in testa,
scombussolato da cotante emozioni... come pretendete che mi
ricordassi del bloccasterzo?! Quella chiave grande quanto l'unghia
del mignolo, tre cose faceva: sganciava il casco dal codino della
moto, toglieva il bloccasterzo e accendeva. Come avrete già capito
feci due cose su tre.
«Ti sei fatto male? Vuoi entrare in
casa?», la sua voce attutita da quintali d'ovatta, quasi giungesse
da distanze siderali (quelle dei mondi paralleli probabilmente).
Io che per fare il figo ero anche
partito a manetta: piede in fuori, come i piloti, scarto la Peugeot
parcheggiata davanti, mi rimetto dritto... cioè avrei voluto...
Un gigantesco ammazza mosche mi fionda
per terra: ricordo che visualizzai quest'immagine.
Anestetizzato dall'adrenalina a mille
raccolgo i pezzi dello specchietto, di qualche leva e del paramano e
li ficco a mo' di criceto sotto la giacca a vento rossa della
Marlboro.
«No, no tranquilla, sto bene»,
continuo a fare il figo. Ma lei sta sghignazzando? Dai, non può
essere così cinica... Qualche ora dopo, al lavoro, mi sarei accorto
di quanto effettivamente mi fossi fatto male. Mezzo scocciolato, come
la mia moto, riparto verso casa con la coda fra le gambe e con la
manopola del gas tutta imbarcita per i sassolini che ci si erano
infilati.
Beh, ci sta, è il Karma, si dice così
no? Era troppo bello per essere vero, ci voleva un evento che
bilanciasse l'universo. Il mondo non lo sa, ma deve ringraziare me se
ancora fila tutto per il verso giusto! In un microsecondo da Fonzie a
Mr. Bean. Contuso, ( e pure confuso), con la moto intarocchita, e
single peggio di prima.
sabato 2 febbraio 2013
Il nuovo negozio
Aprendo
la porta della cameretta la madre lo sorprese intento a fissare il
coniglietto di cioccolato.
“Non
dovevi andare a giocare a pallone?”, chiese Anna con ancora indosso
il guanto da forno a strisce rosse.
Alessandro
si soffiava dagli occhi la zazzera castana spaghettiforme, per
concentrarsi sull'animaletto-dolciume: la cura dei particolari era
impressionante, gli occhietti avevano persino una minuscola pupilla.
Più lo
fissava e più sentiva crescere una sensazione calda, di vaga
premonizione, come se all'improvviso quegli occhi
settanta-per-cento-cacao dovessero accendersi di un guizzo.
“Sì,
adesso vado mamma...”, bisbigliò quasi assente, appoggiando con
cura il coniglietto sul comodino di fianco al letto, sotto
l'abat-jour azzurrina.
“Stai
facendo i biscotti?”, esclamò poi additando il guanto da forno.
“Si,
quelli di pasta frolla con le gocce di cioccolato, quelli che ti
piacciono”, sorrise Anna.
“Evvai!”,
con uno scatto saltò giù dal letto e corse a raccogliere lo zaino.
“Così stasera quando torno li mangio!”
“Dopo
cena però, se no ti passa l'appetito”, lo ammonì la mamma.
Alessandro
non rispose, ficcò nello zainetto una bottiglia d'acqua, il pallone,
una Fiesta e inforcò le scale come un forsennato.
Era già
sul marciapiede e non poté sentire sua madre che dal piano di sopra
gli gridava: “Piano, piano!”.
Camminava
spedito, lo sguardo incollato sulle scarpe da tennis nere e un
sorrisetto beffardo. Prima di svoltare l'angolo lanciò un'occhiata
furtiva alla finestra della sua stanza, in mansarda. Le tende erano
tirate e immobili.
“Ma
qui fino a ieri non c'era un negozio di scarpe?”, così aveva detto
sua madre, alquanto stupita. E invece dalla sera alla mattina,
dell'eterogenea moltitudine di mocassini, stivali, scarponi, ciabatte
e pantofole si era persa ogni traccia.
Alessandro
si aggrappava estasiato alla vetrina, gli brillavano gli occhi:
invece del mare di scarpe c'era una foresta incantata. Era un reame
di cioccolato, tutto popolato di animali. Sulla carta da parati dello
sfondo alcune cime innevate si stagliavano contro un cielo
limpidissimo. Del muschio era steso dappertutto e sopra, qui e là,
spuntavano alberelli carichi di frutti arancioni. Nell'angolo a
destra c'era una piccola baita, sempre di cartone, lambita da un filo
di ghiaietta che serpeggiava verso le montagne. E ovunque animaletti
di cioccolato. Sei cigni, uno più grande e una coda di piccoletti,
galleggiavano nel laghetto di stagnola, laggiù a sinistra. Poi,
raccolti in gruppi o sparsi sotto gli alberelli e intorno alla
casetta, c'erano decine di coniglietti, gatti, cani, cerbiatti,
mucche, cavalli. Grossi uccelli ad ali spiegate, appesi con lo spago,
pendevano fra le montagne.
La
campanella trillò allegra.
“Buongiorno”,
salutò educatamente Alessandro.
“Oh,
ciao, sei di nuovo tu...”, l'apostrofò benevolo l'anziano signore.
Aveva folti baffi candidi e minuscoli occhialetti tondi. Con la barba
sarebbe stato un perfetto Babbo Natale.
La
coperta ebbe un piccolo sussulto. Anna, che stava sistemando la
camera del figlio, si fermò un attimo, perplessa. Forse se l'era
immaginato, la finestra era chiusa, non c'era corrente. Riprese a
spolverare le mensole sopra la scrivania, ma un rumore sommesso la
interruppe di nuovo. Veniva proprio da sotto il letto. Si chinò con
circospezione, un po' impaurita. Sollevò lentamente il lembo della
coperta, reggendo ancora nell'altra mano il flacone del Pronto.
Alessandro
rimaneva immobile al bancone, guardando il registratore di cassa, un
po' intimidito. Si guardò intorno: il negozio era vuoto.
“Vuoi
un altro animaletto? Altri coniglietti?”, gli sorrise il signore.
Adesso
che ci pensava, quel negozio era sempre stato vuoto, tutte le volte
che ci era capitato. Eppure vendeva cioccolato, ci sarebbe dovuta
essere la fila fin fuori dalla porta! Invece anche quel pomeriggio
non c'era nessuno. Certo, in agosto la città si svuotava e gli altri
commercianti chiudevano quasi tutti. Il cioccolato poi è uno sfizio
più invernale che estivo.
“Ce
l'hai un leone?”, chiese Alessandro.
“Oh,
sì che ce l'ho, in vetrina non c'è ma te lo faccio subito; io
faccio tutti gli animali”, esclamò trionfante il vecchietto
lisciandosi i baffi e sistemandosi il fungoso copricapo da
pasticcere.
“Allora
vorrei un leone”.
Il
locale era piccolissimo, non c'erano altri commessi. Soprattutto non
c'erano altre porte: dov'era il laboratorio?
Il
vecchietto scomparve chinandosi dietro il bancone e ne emerse un
istante dopo porgendo al ragazzino la perfetta miniatura di un leone,
le fauci spalancate in un ruggito e una zampa sollevata. “Cinque
euro come sempre”.
Alessandro
allungò la banconota tutto contento e si precipitò all'uscita.
“Mi
raccomando ragazzino, mangialo prima che scada. I miei cioccolatini
scadono molto presto...”, si raccomandò il negoziante.
“Quando
scade poi si guasta subito? Non lo posso mangiare neanche se è
scaduto solo da un giorno?”, obiettò Alessandro.
“Se
scade poi ti mangia lui, sta attento!”, esclamò il vecchio in tono
perentorio. Qualcosa si indurì negli occhi azzurri dietro le spesse
lenti. Alessandro tergiversò con la maniglia in mano, poi corse
fuori ridendo forte. Quando svoltò l'angolo si accorse che il
vecchio lo guardava fisso, ritto dietro la porta, e non sorrideva.
“Sono
tornato...”, vociò Alessandro irrompendo in casa come suo solito,
lanciando lo zaino sul divano. La mamma non rispose. Di sopra, la
porta della sua camera era socchiusa. Salì le scale adagio,
stringendo forte il corrimano laccato bianco.
“Mamma...”,
chiamò quando fu quasi in cima, la voce gli uscì strozzata.
“E
questo?! Dove l'hai preso?!”. Anna comparve trafelata, brandendogli
davanti alla faccia un coniglietto marroncino e grigio.
“Te
l'ho detto mille volte che non voglio animali in casa...”
“Ma
non l'ho preso io, non so da dove viene...”, piagnucolò
Alessandro.
“Ah
non lo sai? Magari si sono arrampicati su per il muro... in pieno
centro!”
Il
ragazzino si stropicciava le mani, guardando il pavimento.
“Volevi
tenermeli nascosti? Cosa credevi, che non li avrei mai visti, eh?”,
gridò sua mamma.
Alessandro
entrò frastornato in camera sua. Sul letto era accovacciato un
grosso coniglio bianco che subito gli piantò addosso le iridi
vermiglie. Per terra due batuffoli più piccoli si rincorrevano
frenetici, scomparendo e riapparendo sotto il letto, dietro
l'armadio, sotto la scrivania, in un turbinio di pellicce nere e
fulve. Sotto l'abat-jour fremevano leggermente i resti di un piccolo
incarto dorato. Se con un po' di pazienza qualcuno avesse dispiegato
la stagnola, ci avrebbe letto: “Scad. 18/08/2013”.
Lentamente
Alessandro tirò fuori di tasca il leone, fissando la madre con gli
occhi sbarrati. Poi lo scartò in tutta fretta e lo ingoiò intero.
mercoledì 30 gennaio 2013
Storie da biblioteca - Risultati concorso
Secondo a parimerito nella sezione Pesaro...: evvai ! :-D
Andate a leggere il mio racconto!
http://www.bibliotecheaperte.it/joomla/index.php?option=com_content&view=article&id=351&Itemid=144
martedì 15 gennaio 2013
Frammenti d'assurdo
Come ogni mattina lo svegliò il cellulare sulla mensola,
alla sua sinistra: le sei e tre quarti. Come ogni mattina il pensiero
del suo squallido monolocale lo avvilì. Un anno fa era stato a un
passo dall'altare e adesso era solo come un cane. Ironia della sorte
aveva un gatto a fargli compagnia. Provava un’indefinita
svogliatezza e un leggero senso di nausea. Tra poco in ufficio ci
sarebbe stata una pesantissima riunione sul bilancio di fine anno e
lui era nell'elenco dei relatori. Il suo intervento era il quinto
della mattinata. Voci di corridoio mormoravano di licenziamenti,
declassamenti e trasferimenti. Allungò la mano, zittì il telefono e
come uno zombie si trascinò alla porta del bagno. - Occupato – si
sentì rispondere. Provò ad aprire ma era inchiavato. Troppo
assonnato perfino per pensare, si accovacciò a sbirciare dalla
serratura. Dallo spiraglio lasciato libero dalla chiave intravvide
una persona identica a lui intenta a farsi la barba davanti allo
specchio.
Una leggera bruma imperversava nella notte senza luna.
Intorno tutto taceva. Solo buio pesto. Non era un uomo per fortuna.
Nemmeno un cane. Ma quegli occhi e quelle zanne non erano di questo
mondo. Acquattato dietro un cespuglio cercavo di scorgere tra gli
alberi il minimo movimento. Nulla. Non si muoveva foglia. Nemmeno un
alito di vento. Un silenzio immobile e innaturale. A una ventina di
metri la mia Alfa ridotta ad un groviglio di lamiere, col fumo bianco
che ancora usciva dal cofano. D'improvviso un sibilo dietro di me.
L'autobus si era quasi del tutto svuotato. La maggior
parte erano scesi alla fermata precedente, quella della scuola. Marco
osservava dal finestrino i suoi compagni che come un esercito di
soldatini armati di zainetto cartelle e album da disegno marciavano
verso il fronte delle quotidiane interrogazioni e dei compiti in
classe. La giornata però era troppo bella per sprecarla, e quindi
lui e Andrea si erano sentiti il giorno prima e avevano deciso di
passare la mattinata al mare. Marco e Andrea erano da sempre compagni
di banco, dalle medie fino ad ora, nella quinta ginnasio del liceo
Tasso. Erano tanto più amici quanto più diversi. Forse era proprio
quella la forza della loro amicizia. Marco uno studente modello, otto
in tutte le materie indifferentemente, anche se lui preferiva quelle
umanistiche; Andrea invece era il classico bulletto scavezzacollo con
tutti quattro/cinque, più amante delle scorribande in motorino,
delle bravate coi compagni o delle spacconate con le compagne. Già
alle nove del mattino il sole splendeva alto e picchiava abbastanza.
Marco gettò un'occhiata al suo zaino, dove invece di libri e
quaderni aveva asciugamano, pallone e crema solare. Tra un' oretta
sarebbe arrivato alla spiaggia e avrebbe trovato ad aspettarlo il
sorriso beffardo di Andrea con la sua Vespa bianca. Era bella quella
sensazione di trasgressione, quella botta di straordinario in una
giornata altrimenti deprimente e pallosa come tutte le altre. Marco
sorrise mentre cullava questi pensieri all'andatura soporifera del
vecchio autobus arancione. D'un tratto si sentì un po' in colpa
perché di lì a poco lui sarebbe stato promosso, mentre il suo
compagno Andrea di sicuro non sarebbe andato al liceo. D'improvviso
un gatto rosso catturò la sua attenzione. Era accovacciato ad una
fermata di fianco a tre bambine cinesi, una signora più anziana,
forse la madre e un signore distinto, in giacca cravatta occhiali
scuri pizzetto e ventiquattro ore, un rappresentante, un uomo
d'affari o qualcosa di simile. Quel gatto sembrava guardarlo. Un bel
gattone tigrato rosso con gli occhi verdi. L'autobus era filato via
senza il minimo rallentamento, nessuno aveva fatto cenno al
conducente di dover salire. Le quattro persone erano rimaste
completamente immobili, sembravano quasi statue di cera, impassibili
e assenti. Gli occhi del gatto in confronto sprizzavano una potente
vitalità. Marco si infastidì e distolse il viso dal finestrino.
L'autobus si fermò e scesero tutti. Marco rimase solo. Un'occhiata
all'orologio: le nove e un quarto. L'autobus riprese la sua corsa e
Marco si rimise a guadare fuori. Il tempo era cambiato di colpo, non
c'era più il bel sole di prima, si era fatto molto nuvoloso. Strano.
Marco guardò in direzione dell'autista come a chiedergli
spiegazioni, ma dal suo posto non poteva nemmeno vederne il riflesso
sul retrovisore. Per quel che ne sapeva l'autobus avrebbe potuto
anche muoversi da solo, spinto dalla stessa energia oscura e
misteriosa che aveva guastato quella splendida mattinata estiva
rendendola cupa e uggiosa come una di fine novembre. Era inquieto,
non vedeva l'ora di raggiungere Andrea. L'autobus superò un'altra
fermata a tutta velocità. Sotto la pensilina nessuno. L'autobus
sembrava andare sempre più veloce e superava solo fermate deserte.
Erano le nove e mezza, gli sembrò che il tempo si fosse dilatato,
non si ricordava tutte quelle fermate in soli venti minuti. Ecco
un'altra fermata: l'autobus al solito proseguì imperterrito ma con
la coda dell'occhio Marco scorse un bagliore verde in un gomitolo
rosso. Possibile fosse quel gatto? Dopo qualche istante lo vide
distintamente, accovacciato su un muro in pietra vicino ad un grande
cancello in ferro battuto. Lo vide per tempo e mentre l'autobus si
avvicinava lui e il gatto si guadavano. Per tutto il tempo che
l'autobus si avvicinò al gatto e finché lo superò i loro sguardi
si incontrarono. Dopo qualche minuto l'autobus si fermò. Marco
guardò fuori ma non c'era nessuno. Sulla panca sotto la pensilina
solo cartacce e una bottiglia vuota, una fermata fantasma come tutte
quelle di prima. L'autobus non ripartiva. Dall'abitacolo dell'autista
non giungeva segno di vita. All'improvviso qualcosa di rossiccio
sgattaiolò dentro. La porta si chiuse e il gatto balzò sul posto
vuoto di fronte a Marco. Il ragazzo e il felino si guardavano negli
occhi in silenzio. Il gatto leggeva paura e sgomento in quelli di
Marco. Marco invece notò con sollievo che gli occhi smeraldo del
gatto si erano fatti d'un tratto benevoli e sornioni. - Non vai a
scuola oggi? - chiese il micio.
Da
lassù vedeva un pullulare caotico di luci, puntini scuri e piccoli
rettangoli. Se fosse stato giorno probabilmente avrebbe suscitato più
clamore: i puntini scuri si sarebbero raccolti in cerchi, ovali,
sarebbe sbucato un megafono; i piccoli rettangoli avrebbero smesso di
fare avanti e indietro. La notte gli infondeva quiete, e questo lo
aiutava. Bruno voleva andarsene in silenzio come aveva vissuto.
Nessun rimpianto, la lettera avrebbe spiegato a Chiara, la moglie,
che lei non c’entrava, non era colpa sua, non importava se quella
volta l’idraulico era forse un po’ troppo imbarazzato;
assolutamente non c’entrava il fatto che non lei non potesse avere
bambini. Forse la goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stata
la sfuriata del suo capo-ufficio, il giorno prima. Gli aveva dato
dell’incapace, dell’ignorante, del fannullone. Ma cosa gliene
fregava poi? In fondo quel lavoro non gli piaceva nemmeno...ma forse
anche questa era solo una delle mille ragioni. E’ inutile adesso
chiedersi cosa passi per la mente di un suicida, credo sia uno dei
misteri dell’universo, al pari dell’evolversi delle galassie,
dei buchi neri e dell’esistenza di Dio. Fatto stava che aveva
deciso di farla finita. La molla scattò, l’interruttore accese la
scintilla. Dalla matassa intricatissima di miliardi di sinapsi partì
l’impulso che disse alle sue gambe di staccarsi dal terrazzo.
Teneva gli occhi chiusi, la sua mente era leggera come non si
sarebbe mai immaginato. Ad un tratto fu come se il vento divenisse
impetuoso e si levasse una tempesta; d’istinto spalancò gli occhi
e si accorse che aveva smesso di precipitare. Respirò lentamente per
calmare l’agitazione dello stupore e volò per qualche metro. Si
fermò un attimo e guardò giù. Non era cambiato nulla, ma tutta
quella frenesia gli appariva adesso vuota e sciocca. Poi capì:
guardò in alto e vide la luna. Mai così vicina. Mai così bella.
Mai così luminosa. Luminosa e illuminante: la vita adesso aveva
tutto un altro sapore, per la prima volta gli parve avere senso. Volò
di nuovo per qualche metro, rapidissimamente prendeva sempre più
confidenza con la sua nuova abilità. Dopo qualche minuto già poteva
volare per centinaia di metri, dopo un'ora di esercizio non aveva più
nulla da imparare. E volava, volava velocissimo, scendeva in
picchiata, si divertiva a schivare i tralicci elettrici, faceva
piroette, evoluzioni e acrobazie. Ogni tanto indugiava qualche
istante alle finestre dei piani più alti e osservava una tranquilla
cena in famiglia o una furibonda lite fra innamorati o la solitudine
di tizi qualunque sprofondati sul divano davanti alla televisione. Ad
un certo punto si accorse che dal terrazzo di un edificio poco
distante qualcuno gli faceva dei segnali con una torcia. Volò più
vicino e sentì distintamente lo sconosciuto intimargli di smetterla
e di scendere. Planò sul terrazzone con troppa veemenza, era ancora
alle prime armi dopotutto, per poco non urtò l'altro uomo. - Cavolo
atterrare è molto più difficile che volare... - Non appena fu coi
piedi per terra l'altro gli si avventò contro e lo prese per il
bavero della camicia – Ma sei matto ?! Cos'hai in testa, così ti
farai ammazzare! Basta, scendi, possono vederti...- Hai visto, posso
volare!!!...so volare, volo!!! - Bruno parlava da solo, era fuori di
sé dalla felicità e non si curò affatto del tono e della rabbia
del suo interlocutore – Incredibile...non è
possibile...aspetta...forse è un sogno... - L'altro gli diede un
sonoro schiaffo in faccia. Bruno rimase interdetto, ma almeno adesso
sapeva che non era un sogno. - Ma che cazzo fai, sei scemo? Perché
mi hai colpito?!...E poi chi sei, perché hai chiamato?! Mi chiami
per picchiarmi??! - Ascoltami bene – iniziò l'altro in tono grave
– ho visto che voli, lo so che voli. Anche io so volare e come me
altri possono farlo. Siamo quasi quattrocento ormai. Ci siamo riuniti
in una nostra comunità. Io l'ho scoperto tre mesi fa. Volevi
suicidarti vero? Io mi gettai proprio da questo palazzo, ho perso
tutto giocando in borsa. Anche volendo però, per fortuna o sfiga che
sia, la vita non sono riuscito a perderla. I nostri scienziati sanno
per ora che accade a quelli come noi che si gettano nel vuoto col
chiaro intento di uccidersi. Non funziona se cadi per sbaglio dal
balcone, da un'impalcatura o da una finestra, mentre giochi o sei
distratto o fai lavori e pulizie; non succede nemmeno se non ti si
apre il paracadute: devi suicidarti. Non abbiamo ancora scoperto un
particolare gene o caratteristica fisico/biologica che ne sia
responsabile. Non dipende né dal sesso né dall'età né dalla
razza. Con ogni probabilità rientra in quel 90% di cervello che
normalmente non si usa. Ma il brutto è che lo sanno anche loro. -
Loro chi? - chiese Bruno. - Parlo di quelli dell'area 51,
dell'alternativa 3, degli esperimenti per il controllo climatico, dei
viaggi temporali. Scommetto che non ci hai mai creduto, quasi nessuno
ci crede, è quello che vogliono; fanno di tutto per far passare
queste cose come cialtronerie, fantascienza o favolette, diffondendo
forum e blog in rete e promuovendo ridicoli programmi televisivi.
Invece è tutto vero. Rifletti un attimo: prima di stasera avresti
mai creduto che gli uomini potessero volare? - Bruno trasalì.
Quell'uomo aveva colto nel segno. Lo sconosciuto continuò –
Immagina se si venisse a sapere: le compagnie aeree fallirebbero, non
si venderebbero più né auto né moto, non ci sarebbe più bisogno
della benzina, del petrolio. Adesso tengono il mondo per le palle. Se
ti scoprono ti ammazzano. Non vogliono perdere il loro potere e i
loro miliardi. Ti fanno fuori senza pensarci un secondo. Sai quanti
amici ho visto uccidere...loro possono tutto e non temono niente, per
loro non c'è né legge né giustizia, sono al di fuori e al di sopra
di tutto e tutti. Si tratta di un'organizzazione paramilitare
segretissima, una sessantina di persone in tutto il mondo. - Dopo
quella spiegazione Bruno, visibilmente scioccato si mise a sedere a
terra e si prese la testa fra le mani. Era decisamente troppo tutto
in una volta. Lo sconosciuto fece una pausa, un lungo respiro e gli
disse con tono pacato – Da stasera tu per tutti sei morto. Non puoi
più tornare alla solita vita. - E chi la vuole... è proprio per
quello che volevo ammazzarmi...- sorrise Bruno. - Eh già, questo è
uno dei lati positivi della faccenda... - rispose lo sconosciuto
tendendogli la mano e issandolo in piedi. - Andiamo dai, ti porto
dagli altri – Bruno annuì, si alzarono in volo e scomparvero nella
notte.
Non riusciva proprio a concentrarsi. La
giornata piovosa al di là dei finestroni non aiutava. Fissava sul
monitor il report in excel ma da venti minuti non faceva un clic. Era
molto arrabbiato. In ufficio erano giorni difficili. Un caos di
telefonate a raffica, conference call, non si poteva rimanere su un
lavoro per più di cinque minuti di fila. Il genere di cose che
mettono profondamente in crisi quelli col suo carattere. Faceva
vagabondare lo sguardo sulla scrivania: l'evidenziatore arancione, un
mucchio di graffette, il suo cellulare con sopra la penna, il
portafoglio di pelle nera, i post-it rosa, un calendario 2011 di una
ditta sconosciuta, una cartellina di plastica rossa, un giornale di
annunci vari. Poco più in là il solito sacchetto di plastica con
dentro il pranzo microondabile, lo spazzolino, il dentifricio, la
forchetta e un frutto. Ogni giorno si portava dietro sempre lo stesso
sacchetto. Forse era meglio fare una pausa. Si, ci voleva proprio uno
stacco. Come un automa prese verso il bar all'angolo a poche decine
di metri dall'ufficio, il solito in cui andava tutte le mattine più
o meno a quell'ora in compagnia di tre o quattro colleghi. Stavolta
però era solo. Pioveva forte ma non se ne curava. Il giubbotto aveva
il cappuccio ma l'aveva lasciato abbassato. A capo chino e con lo
sguardo spento contava lungo il tragitto le cicche di sigaretta, le
cartacce, le bottiglie e le altre schifezze gettate per strada. Alzò
la testa solo per entrare nel bar. Gli sembrò che tutti smettessero
di fare le loro cose per mettersi a fissarlo. Indugiò un attimo
sull'uscio e sentì salire alla testa un getto di rabbia caldo. Il
suo sguardo era furioso, avrebbe voluto incenerire tutti quegli
stronzi con i loro cornetti bloccati a mezz'aria e la loro spregevole
espressione ebete. Ordinò con tono sprezzante cappuccino e
bombolone. Che giornata di merda! Tutte a lui erano capitate:
l'imbecille in macchina che gli era stato sotto il culo per un'ora
lampeggiando e strombazzando e che poi l'aveva sverniciato col dito
medio fuori dal finestrino; quel mezzo scemo all'edicola che urlava
come un ossesso inveendo non si sa bene contro chi o cosa; per
finire, ciliegina sulla torta, quel commento pesantissimo del suo
capo riguardo una relazione da lui consegnata giorni prima.
Centellinò il cappuccino e mangiò il bombolone a piccoli morsi, in
silenzio. Ogni tanto qualche rivoletto di crema gli cadeva sui jeans.
Ma a lui non importava. In testa aveva un ronzio continuo e non
riusciva a pensare a nulla che lo distogliesse dalla rabbia. Gli
balenarono alla mente i fucili da caccia di suo zio, in garage.
Sapeva usarli e sapeva dov'erano le chiavi della rastrelliera: sotto
il vaso dei gerani. Sulla parete di fronte campeggiava una grande
fotografia di una spiaggia tropicale, con un mare cristallino, un
cielo così azzurro da sembrare finto, finissima sabbia bianca e una
gigantesca palma proprio al margine sinistro. Sotto la palma si
intravvedeva un'amaca con sopra un ragazzo biondo di spalle che si
godeva beatamente un mojito. Due tre settimane prima magari avrebbe
invidiato quel ragazzo e desiderato di essere su quell'isola a
prendere il sole e correre dietro alle ragazze. C'erano stati momenti
in cui l'azzurro di quel cielo e di quel mare da favola sarebbero
potuti essere intollerabili. Ora non più. Adesso era troppo tardi.
Aveva superato quel confine. La foto non evocava nulla in lui, lo
lasciava del tutto indifferente. Era come guardare il muro vuoto.
Gettò un'occhiata all'orologio: era ora di tornare al lavoro, non
voleva altre ramanzine. Mentre rientrava con la coda dell'occhio si
accorse del barista che si sbracciava e urlava frasi sconnesse,
qualcosa con “...gare...conto...pezzente...ladro”. Avvertì una
strana sensazione. Di colpo non riconobbe più la lingua in cui si
esprimeva . Eppure prima al bar l'aveva sentito discutere di calcio,
di auto, di programmi TV e ne seguiva perfettamente i discorsi, i
suoi e quelli di tutti gli altri stronzi che lo fissavano e ce
l'avevano con lui. Concluse che il barista avesse cambiato
nazionalità e non gli diede peso. Succede a volte. Vai dal salumiere
giù all'angolo, ordini salsicce e costarelle in italiano e lui te le
serve apostrofandoti in ungherese. Un collega gli aveva raccontato
che ad un suo amico era successa proprio la stessa cosa. Non poteva
preoccuparsi anche di quello, aveva cose urgenti da fare lui, doveva
lavorare, office, excel, presentazioni power-point; veloce, forza,
che arriva la scadenza e se no niente paga e niente promozione.
Almeno l'ufficio era silenzioso quella mattina, aveva bisogno di
concentrarsi e di solito sembrava di stare al mercato. Di questo era
grato ai colleghi, perché lo capivano, capivano la delicatezza del
periodo che stava attraversando e si sforzavano di non fare casino,
per lasciarlo quieto a lavorare in pace. Per questo rivolse a tutti
quelli che incrociava larghi sorrisi e cenni di saluto. Nessuno li
ricambiò. Strano, pensò, prima sono gentili e stanno in silenzio,
poi fanno gli stronzi e non salutano. Forse allora sono tutti
stronzi. Anche i suoi colleghi sono stronzi come la gente al bar. La
gente che lo fissava. Ce l'avevano con lui. Magari i colleghi
fingevano di essere gentili ma alle sue spalle tramavano con gli
avventori del bar. Ecco perché lo fissavano. Chissà cosa avevano
detto di lui i colleghi: delle volte che indugiava troppo al bagno,
di quando era inciampato e aveva rovesciato una risma di fogli per
stampante, o di quando parcheggiando aveva sbattuto contro i bidoni
della spazzatura e aveva visto dalla vetrata che tutti dentro
l'ufficio lo additavano e ridevano. Ma lui non se l'era mai presa.
Aveva sempre abbozzato, fatto buon viso a cattivo gioco, come si
dice. Ad ogni modo non era il caso di prendersela. Non valeva la pena
farsi il sangue amaro, d'altronde era sempre stata una persona molto
equilibrata. Riprese posto alla sua scrivania, questa volta deciso a
terminare con successo il lavoro lasciato in sospeso. Via,
rimboccarsi le maniche e pedalare! Una penna, non trovava più la
sua, gli serviva una penna. Ah, eccola, che sbadato: l'aveva
conficcata nel collo del suo vicino di scrivania. La estrasse di
scatto e il sangue zampillò copioso, schizzandogli in faccia e sul
monitor. Ne leccò un po' che gli colava dalla guancia e con la mano
cercò di pulire il monitor. Ma lo schermo era nero. Non c'era più
il verde di excel, con le tabelle e i grafici a torta. Guardò il
case per terra, di fianco alla sedia e si accorse che il cavo
dell'alimentazione era staccato. Non l'aveva staccato lui. O forse
non se ne ricordava. Ma il computer l'aveva acceso quella mattina? Di
nuovo lo assalì quel vago senso di stordimento che aveva avvertito
quando il barista aveva cambiato nazionalità. Trasalì al frastuono
delle sirene rosse e blu e dello stridere di pneumatici. Non poteva
lavorare in quelle condizioni. Pazienza, avrebbe recuperato
l'indomani. Sistemò meticolosamente gli oggetti sulla scrivania,
accostò per bene la sedia e raccolse il suo sacchetto di plastica.
Un'ultima occhiata prima di tornare a casa. L'ufficio era
splendidamente silenzioso. I corpi erano disposti in maniera
appropriata: le sagome si abbinavano perfettamente all'arredamento,
per nulla turbando le invisibili geometrie del suo sublime disegno.
Ne era soddisfatto. Sospirò e chiuse la porta dietro di sé.
Da giorni ormai perdeva le nottate a
spulciare tra le righe di quell’antico manoscritto. L’altra notte
era andata via la luce in tutto il palazzo e come al solito non era
riuscito ad adoperare una candela o una torcia. Ma non si era dato
per vinto e aveva continuato imperterrito il suo studio matto e
disperatissimo. E anche oggi eccolo lì, accomodato sul grande divano
giallo in sala, curvo sull’imponente tomo in pelle anticata dal
titolo “Metempsicosi e ciclicità dei flussi vitali”. Non aveva
mai notato tutta quella sporcizia fra le piastrelle del pavimento.
Avrebbe dovuto rinfacciarlo a sua moglie ogni volta che gli rompeva
le scatole; quante litigate per le patatine e le briciole su quel
divano quando gozzovigliava con gli amici davanti al favoloso plasma
da sessanta pollici! Eh, bei tempi quelli! Erano altri tempi...era un
altro tempo. D’un tratto una macchietta grigia attraversò la
stanza e si fiondò sul terrazzo attraverso il piccolo pertugio
lasciato dalla porta-finestra non del tutto chiusa. Nonostante la
concentrazione non poté resistere, si gettò all’inseguimento e in
men che non si dica aveva ghermito l’ambitissima preda. L’avrebbe
lasciata sul lettone matrimoniale per quando la moglie fosse tornata
a casa, per farle vedere quanto bene pulisse la casa; lei che gli
dava continuamente dello scansafatiche, si lamentava sempre di fargli
da serva e si vantava delle sue strabilianti doti di massaia. Gongolò
al pensiero della faccia che avrebbe fatto: sarebbe rincasata a
minuti. Tornò al libro. Non riusciva a trovare l’inghippo.
Qualcosa evidentemente non aveva funzionato, ma non capiva cosa. Non
se ne faceva alcun accenno. Forse il suo era un caso unico. Il primo
caso. Sentì il rumore di passi familiari sul selciato e dopo qualche
minuto quello della chiave nella toppa. Una donna sulla sessantina
fece capolino sull’uscio con due grosse sporte della spesa e una
vaporosa acconciatura bionda.
-Ciao Felix! – l’apostrofò –
guarda un po’ cosa ti ho portato? – e tirò fuori un barattolo di
whiskas. Si alzò di scatto dal libro, arricciò il muso, salto giù
dal divano e sprofondò le vibrisse nella ciotola che la moglie aveva
appena fatto in tempo ad appoggiare a terra. La donna prese
l’elegante porta-ritratto in cristallo sopra il mobile lì
all’ingresso. Come ogni sera lo contemplò per qualche istante poi
lo baciò. Una lacrima le solcò il viso. Il gatto smise di mangiare,
tutto assorto ricambiò il suo sguardo e le rivolse un supplichevole
miagolio. Non si faceva illusioni, dopo tanti anni ormai non sperava
più che lei se ne accorgesse. La donna lo accarezzò distrattamente,
posò la cornice e si lasciò cadere sul divano, stanca e triste.
CERN di Ginevra, 21 Dicembre 2012, ore 12:21
Il professor Alberto Istano percorreva
a grandi falcate il lungo corridoio. Era raggiante. Cercava di
immaginare le decine di articoli e di pubblicazioni su tutte le
riviste più importanti, già vedeva la sua foto su Science.
Aveva dedicato a quel progetto dieci anni della sua vita, dodici ore
al giorno recluso sotto terra. Ogni tanto qualche neon sul soffitto
diventava intermittente. Finalmente la dottoressa Martini, la giovane
carinissima Elisa si sarebbe accorta di lui invece di perdere il suo
tempo dietro a quell'incompetente di Adolfi e alla sua cretina teoria
delle stringhe. Una teoria cretina per uno scienziato idiota: tutto
quadrava, formula perfetta. Le stringhe sì...ma figuriamoci...perché
allora non corde di violino, o di chitarra...?!; manco fossero dei
musicisti! Che idiozie. Adolfi da ragazzo doveva essersi fatto
parecchie canne strimpellando Battisti nei falò estivi sulla
spiaggia. Ma adesso tutto il mondo si sarebbe dovuto ricredere.
L'altro ieri aveva visto la Martini guardare di nascosto Adolfi
mentre lui scarabocchiava alla lavagna le sue equazioni strampalate.
Lo stesso Adolfi che si era fermamente opposto all'esperimento
prospettando il rischio di un buco nero che avrebbe potuto fagocitare
tutta la Terra. L'aveva sgamata, se ne era accorto. D'ora in poi
quegli sguardi sarebbero stati solo per lui. Doveva pensare a una
seratina romantica con Elisa, l'indomani l'avrebbe invitata a cena.
Già la vedeva arrossire e rispondere un timido sì con quei suoi
occhioni azzurri dietro le spesse lenti. Avrebbero mangiato pesce,
non voleva badare a spese: vino bianco frizzante fra i più pregiati
(lui era un intenditore, aveva il diploma di sommelier), tagliata di
tonno, frittura e per finire le immancabili ostriche con champagne.
Spinse con forza il pesante portone d'acciaio ed entrò nella immensa
sala-comando dell' HLC. Tutti erano già lì ad attenderlo. Gli altri
ricercatori erano in piedi disposti a semicerchio, tutti con lo
stesso camice bianco, la stessa targhetta identificativa appesa al
taschino e la stessa cartellina rossa sottobraccio. Alberto Istano
respirava a pieni polmoni il suo momento di gloria. Da otto giorni
non aveva fatto altro che ripassare col suo team lì riunito tutte le
fasi dell'esperimento. Gli undici scienziati più capaci del pianeta
avevano ricontrollato puntigliosamente tutte le formule, le equazioni
e i grafici. Le menti più brillanti di questo universo si erano
arrovellate dibattendo la questione fino al limite del conoscibile e
del sopportabile. Adesso l'ultimo atto di quell'opera sublime,
l'ultima tessera di quel celestiale mosaico spettava a lui, Alberto
Istano. Non si era mai sentito in tutta la sua vita così euforico e
così potente. Avrebbe voluto che quel momento fosse eterno. Per un
attimo ammise l'esistenza di Dio. Lui era Dio. Non giocava a fare
Dio, era Dio. Dondolava lo sguardo tra l'Adolfi e la Martini, a
dominare lui e corteggiare lei. Mi dispiace caro Adolfi, il tuo
fisico giovane e sportivo deve inchinarsi alla maestà della
sovrumana trascendente sapienza. L'atmosfera era tesissima. Tutti
guardavano e aspettavano lui. Istano si sedette al pannello di
controllo. Espirò profondamente e lentamente. Qualcuno dei
collaboratori sudava freddo. Il grosso bottone rosso al centro del
quadro esigeva di essere premuto. Era il momento. Istano allungò con
prudenza la mano e posizionò solennemente il palmo sopra il bottone.
Si voltò furtivo a cercare Elisa. Lei abbassò impaurita lo sguardo.
Premette il bottone. Un attimo, fermi tutti: ma se la massa del muone
3-Gamma è inferiore a y/π3+1/4...forse
allora la soglia di energia critica potrebbe effettivamente generare
un buco nero che inghiottirebbe in un istante l'intero pianet
Erano stati i tre mesi più
strabilianti della sua vita. Erano volati, come sempre forse in
questi casi. Una cosa simile non l'avrebbe mai e poi mai immaginata.
La moto da enduro si arrampicava lesta su per la collina. Sorrideva
mentre si gustava l'acuto gracchiare della sua Aprilia. Un vento
leggero aggirava il casco aperto e gli carezzava il viso. Ai lati
della stradina ripida e sconnessa scorrevano le macchie verdi dei
cespugli e quelle gialle delle mimose. Il cielo era terso. Era
felice. La primavera stava sbocciando, come il suo nuovo amore. Tra
poco l'avrebbe incontrata. Amor vicit omnia, è proprio vero:
tutti quelli che l'hanno provato ve lo confermeranno. Potete
scomodare i classici greci o latini, potete consultare Freud:
troverete che l'innamoramento ha effetti prodigiosi, è quel “sole
caldo che guarisce tutti i mali”, come cantavano i Nomadi. Si
sentiva così, potentissimo e felice, libero e padrone del suo
destino come non mai.
Lei lo aspettava seduta sulla riva del
laghetto. La giornata era splendida e l'arrivo della bella stagione
la inebriava. Una brezza gradevolissima increspava impercettibilmente
lo specchio d'acqua e scompigliava sommessamente le fronde dei lecci
e dei cipressi tutto intorno. Ripensò alla prima volta che si erano
incontrati. Era febbraio, forse. Faceva freddo e pioveva forte.
All'improvviso la spaventò un rumore acutissimo, come un urlo e un
attimo dopo una moto saltò fuori da un cespuglio e scivolò
malamente sul fango. Il pilota atterrò bruscamente a pochi passi da
lei, per poco non finì nel lago. Lì per lì ebbe paura per la sua
vita. Ricordò il sollievo, l'amarezza e la tenerezza che provò
quando si accorse che l'uomo era vivo, ma rimaneva a terra, il casco
mezzo sommerso nella melma, a mescolare lacrime e pioggia.
Guardava con trepidazione l'orologio.
Mancava poco ormai. Da dietro un albero puntava il binocolo in
direzione del lago e scrutava la stradina bianca e polverosa che
scendeva dalla collina.
Si divertiva a strapazzare la sua RX.
Quella moto aveva quasi vent'anni ma lo emozionava ancora, anzi
adesso che la guidava come per distruggerla era la fine del mondo.
Infilava le marce senza frizione e si fiondava nelle curve a gomito
scalandone anche tre assieme, tanto il due tempi non aveva freno
motore. D'un tratto intravvide un bellissimo prato fiorito là in
basso. Poco dopo era di nuovo in sella, con una rosa bianca per il
loro anniversario, a tutto gas dalla sua bella.
Eccolo, come ogni giorno era arrivato,
puntuale. Li spiava da dietro l’albero, sporgendosi dal tronco il
minimo indispensabile per non essere scoperto.
Le sorrise e le porse la rosa. – Per
te, per noi, per il nostro anniversario. – Ma dai, sono solo tre
mesi – si schernì la fanciulla. Si sedettero in riva al lago, lui
si fece serio serio e prese subito la parola – Ascoltami bene, devo
dirti tante cose, cioè non tante ma molto importanti. Scusami sono
emozionato, è difficile. – Lei ascoltava assorta, gli strinse le
mani e gli sorrise. – Lo so che ci conosciamo da poco – proseguì
lui –magari mi dirai che è troppo presto, che è una cosa
avventata. Ma nella nostra situazione…già siamo abbastanza
strani…non trovi? – Lei abbassò lo sguardo e una folata
improvvisa agitò il prato in lunghe onde – Boh, forse è presto,
forse sono avventato…forse sono pazzo…ma a questo punto… in
questa situazione…la verità è che non mi sono mai sentito così.
Dopo tantissimo tempo finalmente sto bene. Sì, sto bene. Non avevo
mai incontrato una ragazza come te… - Sorrisero entrambi, lei lo
baciò- Dai, lo so, non dire nulla – continuò lui – Ti amo. Ti
amo e voglio stare con te. – Lei stava per intervenire ma lui la
bloccò subito appoggiandole un dito sulle labbra – No, dai, fammi
finire. So cosa vuoi dire, cosa stavi per dire. Voglio stare con te a
tutti i costi. Al diavolo mia moglie. Mi dispiace solo per i miei
figli, ma tra poco saranno grandi e potranno decidere da soli se
vedermi o no. A loro voglio bene, loro mi mancano. Ma non rinuncerò
mai a te.
-Io sono legata a questo luogo, a
questo lago. La primavera è alle porte, ma ti ricordi
quest’inverno…non posso…non voglio chiederti questo. – Un
gabbiano planò sul pelo dell’acqua, il sole si perse dietro un
grosso nuvolone bianco.
-Ho deciso. – Lui le sorrise e la
baciò, a lungo questa volta.
- Chissà cosa verrà a fare tutti i
giorni qui da solo…mah…sempre a quest’ora… - pensò il tizio
nascosto dietro l’albero – adesso cosa fa?! Parla pure da
solo?!...Bah…è scemo secondo me…
Le
tempie gli pulsavano tremendamente. Il dolore divenne molto presto
insopportabile. Istintivamente cercò di sollevare la mano destra.
Qualcosa la bloccava. Schiuse a fatica le palpebre, anche gli occhi
erano intorpiditi. Intorno a lui fluttuava un magma grigiastro, si
vide inchiodato ad una scranna sospesa su un precipizio.
Una settimana prima…
Sorrideva seduto al bancone del bar. Si
voltò ad osservare i clienti. Un ragazzino coi capelli lunghi e
delle cuffie enormi era immerso in un tomo di fisica: probabilmente
uno studente. Non lo vedeva in faccia ma aveva lo sguardo spento, ci
avrebbe scommesso. L’omaccione di fianco a lui invece era
incazzato. La camicia a quadri rossi e blu, canottiera nera sudicia
di manate bianche, ingurgitava un enorme sfilatino lattuga e
prosciutto e trangugiava una Peroni ghiacciata: un muratore di
sicuro. Nel tavolino vicino alla vetrata una coppietta discuteva
animatamente. Lui si sbracciava anche se tentava di non alzare la
voce, si vedeva chiaramente che era molto agitato. Lei non diceva
nulla, teneva lo sguardo basso sulla sua tazza di tè annuendo di
tanto in tanto. Magari si sarebbero lasciati di lì a poco.
Cavalcando quel pensiero si concentrò sui capelli biondi, lunghi,
sottili, sul golfino bianco, sull’allettante collana d’argento,
sul pendaglio a cuoricino e sulla scollatura che faceva intravvedere
un seno gentile ma sensuale. Pelle bianchissima, classica bellezza
finlandese. Si distrasse un attimo immaginando come provarci, ma
subito tornò ad invaderlo quel caldissimo senso di superiorità. Si
sentiva quasi un dio fra gli uomini. La cosa che lo inebriava di più
era che nessuno poteva nemmeno lontanamente intuire il suo segreto.
Negli occhi degli altri vedeva il riflesso della sua vita sfolgorante
e compativa di contro le loro misere esistenze. Gettò un’occhiata
alla sua Maserati parcheggiata lì davanti in corrispondenza dei
fidanzatini litigiosi. Tornò sullo studentello: avrà avuto, quanti?
Due, tre, cinque anni meno di lui…?? Beh, anche fra dieci anni
sicuramente non si sarebbe potuto permettere una supercar come la sua
Gran Turismo. Estrasse di qualche centimetro dalla tasca il suo
iPhone, giusto per vedere al volo che ora fosse. Le cinque. Decise
che era ora. Richiamò la barista con un gesto appena percettibile e
ordinò un espresso. Gli occhi gli si accesero mentre contemplava la
minuscola tazzina fumante. Un potere così grande in un oggetto così
piccolo. Lo bevve tutto d’un sorso, si scottò la lingua e il
palato, ma non ci fece nemmeno caso. Aspettò qualche istante che i
fondi si calmassero. Fece un respiro profondo. Si guardò intorno con
circospezione. Prese il telefonino, armeggiò velocissimo sul display
e in men che non si dica avviò l’applicazione “Caffeomanzia”.
Si guardò intorno una seconda volta, con diffidenza ed apprensione.
Si concentrò al massimo in modo da avere la mano più ferma
possibile e scattò una foto alla tazzina di caffè. Il software
elaborò qualche istante e infine diede il responso: una stella, vale
a dire “cambiamenti positivi”. Si alzò di scatto e inforcò
l’uscita ma proprio sulla porta si imbatté e lievemente sbatté
contro una ragazza che stava entrando. Le caddero diversi fogli
protocollo che spuntavano dalla borsetta. – Scusi – borbottò
distrattamente mentre la ragazza era intenta a radunare i fogli sul
marciapiede – Stia più attento! – lo apostrofò acida la
sconosciuta ma non appena alzò lo sguardo il tono si ammorbidì e da
dietro le lenti eleganti un guizzo attraversò due splendidi occhi
verdi . Di colpo sembrava un po’ meno arrabbiata e un po’ più
turbata – Non fa niente dai – sussurrò lievemente imbarazzata –
No, scusami invece, sono un cretino, ti aiuto a raccogliere – I due
si trovarono faccia a faccia accovacciati, le mani si sfiorarono;
galeotto fu il foglio protocollo. Il rombo della Maserati squarciò
l’aria mentre il fortunato ragazzo accompagnava a casa la sua nuova
fiamma.
Pian piano la stanza intorno a lui prendeva forma. Era in un
seminterrato. Da una finestrella lurida e scheggiata intravvedeva il
via vai dei passanti. Tutto intorno piastrelle bianche. Era legato
mani e piedi ad una pesante sedia di metallo, gelida. Raccolse le
forze ancora esigue e tentò di liberarsi ma le corde erano
strettissime e come se non bastasse c’erano molti giri di spesso
nastro isolante a rinforzarle. Lo stesso nastro isolante gli
comprimeva in gola una matassa di stracci maleodoranti. A terra erano
disseminati parti anatomiche, brandelli di carne e grumi di
poltiglia sanguinolenta. Di colpo ricordò tutto: la cenetta
romantica a casa di Laura, l’avvocatessa cui solo una settimana
prima aveva sbattuto in faccia la porta del bar e infine il caffè.
Era uscita la “Foglia”, “entrate di denaro”. Gli sovvenne di
come fosse capitato in quel negozio di telefonia insolitamente
deserto. Di come con grandissima sorpresa avesse trovato il
registratore di cassa aperto e straripante di contante. Di come dopo
aver atteso a lungo si fosse deciso ad intascare il malloppo. Il suo
iPhone era appoggiato in piedi su un tavolo alla sua destra. Un’icona
arancione lampeggiava forsennatamente e anche da dov’era poté
leggere: “Opzione alternativa Serpente – Cercheranno di
nuocervi”. La porta si aprì lentamente e ne entrò un energumeno
in passamontagna che senza dire una parola, con passo flemmatico
prese da un cassetto un vecchio seghetto arrugginito.
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