La
chiamata mi aveva profondamente turbato. Premetti il tasto giallo
sotto il semi-manubrio di destra e la moto ad aero-propulsione si
catapultò a 315 Km/h senza il minimo rumore, squarciando il deserto
con una fulva scia schiumosa. All'orizzonte iniziava a stagliarsi
l'enorme cancellata. Il puntino blu al centro sapevo essere il
cartello metallico che scoraggiava potenziali intrusi con la minaccia
dell'alta tensione. Azionando il pulsante sotto il semi-manubrio di
sinistra vidi accendersi in lontananza il lampeggiante e il cancello
si ritrasse fino a lasciare il solito varco di cinque metri. Non
sapendo chi o cosa avrei trovato oltre quella soglia saltai giù di
sella appena l'ebbi varcata. I sensori di peso spensero il reattore,
la moto fluttuò ancora qualche secondo e andò ad adagiarsi contro
la postazione di controllo. Era sinistramente deserta. L'allarme
proveniva dal laboratorio 1. Estrassi la pistola laser e mi guardai
intorno con circospezione. Non un rumore. La struttura è piuttosto
semplice: dopo il quadrato del muro di cinta con la cancellata
d'ingresso c'è il gabbiotto dove Sam scansiona il personale e il
materiale in entrata e in uscita; da lì una lingua d'asfalto
sufficiente al transito dei cingolati più grossi porta dritta
all'imponente silos centrale. Quello è il laboratorio 1: un cilindro
largo trenta metri e alto una cinquantina, senza finestre, fasciato a
mezz'altezza da una banda rossa su cui campeggia il numero
corrispondente. Certo noi militari non brilliamo di fantasia quanto a
planimetrie architettoniche: rispettivamente alla sua sinistra e alla
sua destra si ergono altri due torrioni differenti solo per i numeri
che recano verniciati: il 2 e il 3. Dall'esterno nulla comunica la
maggior importanza del laboratorio 1 rispetto ai suoi gemelli, ma di
fatto quest'ultimi sono semplici magazzini di stoccaggio per
attrezzature, macchinari e sostanze chimiche.
Notai
che dalla guardiola partivano orme molto distanziate. Sam doveva
essersi precipitato verso il laboratorio. Il perimetro non era stato
violato. Come avevo potuto constatare io stesso il cancello
funzionava correttamente e nel muro di cinta non erano visibili
brecce o altri segni d'effrazione. Qualsiasi cosa fosse era rimasta
là dentro. Visto il genere di esperimenti che vi conducevano non ero
affatto tranquillo. “E' fuggito... aiuto!... fuori controllo...
uccidendo...”, grida e rumori di fondo, poi la comunicazione si era
interrotta. Una folata improvvisa mi gettò sabbia negli occhi.
“Ingegneria genetica”, bisbigliai. Scansione positiva di retina
ed impronte digitali ed ero dentro. Silenzio più assoluto. Di fronte
a me un lungo corridoio con ai lati due file di porte numerate
progressivamente. Erano tutte aperte e da alcuni spiragli si
intravvedevano documenti sparpagliati a terra e sedie rovesciate. Mi
avvicinai alla prima. Un rumore di vetri rotti mi fece sussultare:
avevo calpestato un paio di occhiali. Le lenti in frantumi erano
inzaccherate da una poltiglia rossastra. Mi chinai e toccai con
indice e medio quell'impiastro: sangue, come temevo. Allargai un po'
la porta ed entrai con cautela, l'arma sempre puntata ovunque
guardassi. Jack, lo scienziato che supervisionava i progetti, era a
terra supino, vicino alla scrivania. Il volto era a brandelli, come
raschiato via. Erano netti i solchi di quattro artigli. Gli intestini
erano ammucchiati accanto al corpo come zolle rivoltate. Un braccio
tranciato di netto spuntava da sotto il mobile di fronte
all'ingresso. Le ante erano divelte e molte provette erano
polverizzate sul pavimento tappezzato di fogli. I muri erano
imbrattati di chiazze di sangue e pezzi di interiora. Deborah, la
prima assistente di Jack era riversa sulla sedia, ben lontana dalla
postazione. Gli occhi vitrei puntavano il soffitto e la bocca era
disgustosamente aperta in un ghigno di terrore e stupore. La gola le
era stata strappata a morsi, il sangue sgorgava copioso a inzupparle
il camice. Un monitor ancora integro attirò la mia attenzione. Dal
piano di sopra udii un tonfo sordo seguito a breve distanza da un
fracasso metallico, probabilmente il ribaltarsi di un tavolo
operatorio con tutti gli strumenti chirurgici. Mi avvicinai al
terminale. Si alternavano in loop due schermate: una completamente
nera inondata da righe di codice e una che rappresentava il rendering
di una specie di grosso cane, a fosfori verdi. La stampante
gracchiava a brevi intervalli e una lucina lampeggiava di rimando.
Strappai il foglio che ne penzolava. Man mano che leggevo i miei
sospetti prendevano corpo. Nemmeno un agente del mio grado era
autorizzato a violare la segretezza di quel tipo di file. Scorrevo
frenetico la pagina, ero sempre più sconcertato. Si trattava del
prototipo di un nuovo armamento. Un'alternativa ai robot. Gli
androidi richiedevano costi ingenti per la costruzione e la
manutenzione. Impiegati in condizioni ambientali estreme, ad esempio
nel deserto o al circolo polare artico, a volte subivano avarie che
li rendevano inutilizzabili e il conseguente recupero comportava un
gran dispiego e sacrificio di uomini e mezzi. Il software inoltre
andava periodicamente aggiornato, quando non doveva essere corretto o
addirittura riscritto.
Questa
volta avevano fuso in un'unica creatura i tre regni: animale,
vegetale e minerale. Avevano ottenuto un essere simile a un puma, ma
circa tre volte più grande. Le cellule erano state “vegetalizzate”,
per così dire: era in grado perciò di ricorrere alla fotosintesi
clorofilliana, provvedendo così all'infinito al suo sostentamento
anche in totale assenza di cibo. Grazie ai geni dell'abete rosso
poteva vivere migliaia di anni. Riguardo all'apporto del regno
minerale non ci ho capito granché, sono un soldato non uno
scienziato. Da quel che ho potuto intuire sembrerebbe che, quando si
sente minacciato, grazie ad un particolare processo chimico può
mutare il suo manto in un minerale simile al granito, impossibile da
scalfire. In pratica sarebbe invulnerabile. Avrebbero potuto clonarne
milioni in tempi rapidissimi e con spese risibili. Era stata
modificata la primordiale reazione istintiva del “combatti o fuggi”
facendo in modo che la creatura fosse costantemente in overdose di
adrenalina e attaccasse per uccidere chiunque avesse davanti: una
scheggia impazzita da liberare nella zona calda e lasciar scatenare
finché avesse fatto terra bruciata tutto intorno. Era stato anche
impiantato un chip esplosivo nel cuore, probabilmente per
sbarazzarsene a missione ultimata. Così dunque stavano le cose.
Finito di esaminare il dossier la pistola laser, mia unica difesa, mi
sembrava ben poca cosa. D'improvviso un lieve sbuffo dietro di me.
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