Pestò con violenza la leva del freno,
il Monster bianco si intraversò stridendo e disegnò sull'asfalto
polveroso una lunga virgola nera. Il possente bicilindrico borbottava
al minimo. Tenendo gli occhi fissi davanti a sé cercò lentamente
l'elsa della katana. Spense la moto e con circospezione stese il
cavalletto. Sguainò la spada e mosse qualche passo. Un rivolo di
vento gli scompigliò i lunghi capelli biondi e gli impolverò
pesantemente gli stivali. Davanti a lui la strada finiva nel nulla.
Era un bianco assoluto, come un telo o un muro che ostruisse
l'orizzonte a perdita d'occhio. L'asfalto grigio coi tratteggi
gialli, la fila di alberi ai lati della strada, il cielo terso e
assolato: tutto confluiva e svaniva in quella terrificante immensità.
Era un'altra di quelle volte che non mi
veniva niente. Niente, foglio bianco, tabula rasa. Mi accadeva sempre
più spesso negli ultimi tempi. Il corso di scrittura creativa che
avevo comprato col Corriere della Sera diceva
che in questi casi
buttare giù parole a casaccio, frasi senza senso, anche
sgrammaticate, aiutava a rimettere in moto il turbine di idee. Da due
ore buone però non facevo altro che arrivare a metà riga per poi
cancellare tutto. E via da capo, sbadiglio dopo sbadiglio.
Guen si vestì
senza accendere la luce, attenta a non svegliare Jim. Spalancò la
finestra. Una brezzolina gentile gonfiò le tende e si insinuò sotto
le lenzuola. Jim sbuffò appena e si girò su un fianco. Issata sul
davanzale, la giovane vampira sorrise dolcemente al suo compagno
addormentato. I suoi occhi nocciola scintillarono nella penombra, un
istante prima che si tuffasse per venti metri con la sua Beretta in
pugno.
Filava come il
vento nel bosco di cipressi. Qualche solitario automobilista per un
attimo credette di aver visto una ragazza in tuta di pelle nera che
volava fra i rami più alti, nella luce argentea del plenilunio. Ma i
chilometri ancora da fare erano ancora tanti e bastava la stanchezza
a fargli compagnia per quei tornanti, senza che ci si mettessero pure
le allucinazioni: il solitario automobilista abbandonò quindi in
fretta quello stupido pensiero e tornò a concentrarsi
sull'indicatore del carburante e sulla cartina stradale.
La mano a
sorreggere il mento, fissavo avvilito ora le plastiche annerite del
vecchio monitor, ora la nuova tastiera rossa pieghevole in gomma. Non
era stata un grande acquisto: buffa e simpaticissima per carità, ma
decisamente scomoda per scrivere. Anche questo non aiutava. Come non
aiutava l'estate fuori dalla finestra, coi suoi trenta gradi e le
grida dei bambini. E mi ritrovavo sempre a pensare a tutte le belle
ragazze della spiaggia...
Tra il fitto della
boscaglia si intravvedeva un tremulo barlume dietro i finestroni
rotti. Guen interruppe di colpo la corsa e si appostò dietro un
grosso tronco. Sapeva di trovarlo lì. Controllò che il caricatore
fosse pieno. Un proiettile d'argento era in canna. Dalle assi di
legno marce, divelte in più punti, poteva sbirciare dentro la
baracca ma non coglieva nessun movimento. Di tanto in tanto una
folata di vento più forte delle altre ululava fra le fronde e
scuoteva il fil di ferro a cui era appesa la lampadina. Scattò
fulminea e ruzzolò dentro con un gran fragore di vetri. Ben salda
sulle gambe piroettò su se stessa con la pistola spianata, per
controllare la stanza. Rimase esterrefatta, gli occhi spalancati.
Intorno a lei solo bianco, avvolta da una sensazione di non luogo,
intrappolata in un inquietante straniamento mai provato prima.
Timidamente batté
la punta della katana contro quel muro candido e si accorse che era
una specie di nebbia, la lama ci scompariva dentro. Si guardò
intorno perplesso. Avvicinò prima l'indice, poi lentamente ci fece
scomparire il braccio libero fino al gomito. Sospirò guardandosi le
punte imbiancate degli stivali. La moto a pochi passi da lui, inerte
in quella desolazione, sembrava intimargli un ultimatum. Il motore
prese vita con un rombo cupo. Esitò qualche istante, poi staccò
brutalmente la frizione, snocciolò tre marce a limitatore e la
Ducati scodando scomparve assorbita dal nulla.
Chiuse gli occhi e
sparando all'impazzata corse dritto davanti a lei quanto più poteva.
L'otturatore rimase aperto, la beretta si bloccò. Sentì un calore
conosciuto sul viso. Aprì gli occhi e si ritrovò in un grande parco
con tanti giochi per bambini. Tra l'improvviso schiamazzo e il fuggi
fuggi generale, mamme più o meno giovani strattonavano via in gran
fretta i loro figli, gridando e lanciando sguardi terrorizzati alla
pistola che Guen impugnava.
Adesso però era
veramente troppo! Giocare va bene, ma che quei mocciosi dovessero
urlare come se li squartassero...! Spazientito chiusi la finestra di
open office e spalancai quella reale che dalla sala dava sul parco
dietro casa. Una splendida ragazza mi fissava appoggiata al palo
delle altalene. Un Monster mille sbucò impennando dall'incrociò in
fondo alla strada e inchiodò accostando al marciapiede, proprio
vicino al cartello con dei bambini stilizzati e zompettanti.
“Guen...
Guendalina...”, sussurrai dal terzo piano.
Un'occhiata al
misterioso forestiero: la moto, la spada, i capelli... Riconobbi
anche lui.
Guen lo osservava
diffidente, lanciando rapide occhiate alla Beretta ormai scarica e al
fodero che faceva capolino dietro le spalle larghe del motociclista.
Sentivo i loro sguardi incalzanti su di me, cercavano risposte.
Abbozzai un sorriso stentato e alzai incerto la mano destra in segno
di saluto. “Venite su, la porta è qui sotto, vi apro al citofono”,
dissi a voce alta sforzandomi di apparire allegro.
Un attimo dopo ero
seduto sul divano con Guen e il mio nuovo killer. L'imbarazzo era
palpabile, come lo sconcerto d'altronde. Il mio gatto stava
acquattato sotto il tavolino, fissando i due ospiti con occhi
terrorizzati.
“E
così tu sei Guendalina...”, dissi per rompere il ghiaccio.
“Guen
per gli amici!”, mi sorrise scoprendo i canini. Era davvero
meravigliosa. Averla lì in carne ed ossa era un'emozione
indescrivibile.
“Come
sai il mio nome?”, chiese pensierosa.
“Sei
bellissima... davvero...”, farfugliai senza volerlo.
“Grazie”,
sussurrò un po' sorpresa passandosi una ciocca di capelli dietro
l'orecchio.
“Sei
l'eroina del mio racconto, quello intitolato 17...”,
spiegai, “... ma come sei arrivata qui?”
“Andavo
ad uccidere un lupo mannaro...”
“Che
aveva tentato di far fuori te e Jim... vero?”, interruppi.
“...
Sì, esatto, ma come lo sai? Aspetta... aspetta... il tuo
racconto...? io sarei... e Jim... lo conosci? Allora anche lui è...”,
esclamò sempre più confusa.
“Ero
entrata nel suo nascondiglio e di colpo era tutto bianco”, riprese.
“Ho avuto molta paura e ho corso, correvo e sparavo alla cieca. Poi
sono finita nel parco qui sotto. E ti ho visto. Mi sembra di
conoscerti...”
“E
tu invece... ehm...”, chiesi al centauro samurai accorgendomi di
non avergli ancora dato un nome.
“Non
ricordo come mi chiamo, non lo so, boh...”, ringhiò spaventandomi
un pochino. “Dovevo eliminare un bersaglio ma la strada
all'improvviso è finita... non c'era più niente, era tutto bianco.
Mi ci sono lanciato dentro con la moto e sono finito qui.” “Eri
alla finestra e ho avuto un fortissimo dejà-vu”, aggiunse quasi
scusandosi.
“Tu
invece chi sei?”, mi domandò... niente da fare, ancora non mi
sblocco... rimarrà il motociclista
per ora...
“Eh...”,
esitai, “io mi chiamo Salvatore, piacere di conoscervi, ehm... di
incontrarvi...!”
“E
che fai di bello, Salva?”, fece Guen.
“Cercavo
di scrivere...”, dissi scherzosamente pensando allo schermo vuoto
di là in camera mia.
“Piuttosto...”,
mi alzai in piedi con enfasi, “scusate, sono un cafone, non vi ho
neanche offerto nulla, volete qualcosa da bere?”
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