Occupato. Non ci voleva! Parcheggiava
sempre nello stesso posto; la giornata così cominciava meglio,
specialmente quando andava dalla dottoressa. Quello era il suo, di
posto! Aveva fissato le sedute alle nove del mattino di ogni lunedì.
Anche all'ospedale, prima che lo dimettessero, si erano raccomandati
di “consolidare le abitudini e i rituali”, proprio così avevano
detto, “per non compromettere l'equilibrio faticosamente raggiunto
dopo anni e anni”, una cosa del genere. Gli piaceva essere il
primo, pensare che prima di lui nessuno si era seduto su quel
lettino; pensare che come per lui anche per la dottoressa Paolucci
quello era il primo impegno del primo giorno della settimana; gli
dava conforto, sentiva un tepore rassicurante irrorargli le tempie e
sciogliersi nello stomaco. In quel modo inoltre non doveva subire il
supplizio della sala d'attesa: non riusciva proprio a starsene buono
e fermo sulla sedia. A nulla servivano le copertine sgargianti delle
solite riviste, le stesse che trovava anche dal dentista. Faceva
lunghi respiri ma finiva immancabilmente con lo stropicciarsi le dita
e mangiarsi le unghie; le pareti piano piano gli si avvicinavano, via
via sempre di più fino a collassargli addosso; allora qualche goccia
di sudore freddo gli rigava la fronte, finché dalle raffigurazioni
bucoliche si levava un gemito che in pochi secondi esplodeva in un
urlo straziante. Forse avrebbe dovuto raccontarlo alla dottoressa.
Con un lungo sospiro girò la chiave e, mentre il motore si
ammutoliva borbottando leggermente, si abbandonò sul sedile,
affranto per l'ennesima inattesa frustrazione. Le nove meno dieci.
Avrebbe fatto tardi. Non andava bene. Guardò nel retrovisore e vide
due occhi disgustosamente languidi, sul punto di piangere. Sgommò
rumorosamente e la Simca bianca inchiodò a scossoni nel posto per
invalidi. Sbatté scendendo la portiera. Cinque minuti. Si aggiustò
la cravatta, con rapidi gesti si sistemò gli spessi occhiali e
appiattì i radi capelli grigio-marroni dietro le orecchie. Una
vecchia con un fazzoletto in testa, piegata da due stracolme buste
per la spesa, gettò un'occhiata alle strisce gialle e al simbolo sul
cartello; quindi si fermò un istante e distendendo tutte le rughe
concentrò su di lui un'espressione di rimprovero. Lui ricambiò lo
sguardo con aria assente, c'era posto per un unico pensiero: non
arrivare in ritardo! L'ascensore era lento e rumoroso. Dalla volta
scorsa il ragno aveva ampliato la sua ragnatela, nell'angolo su a
destra. Ma non lo puliva mai nessuno? Odiava i bambini. E più di
tutti odiava quello che anche adesso lo stava fissando. Calcolò che
era la settima volta che rimaneva intrappolato in quell'ascensore con
lui e con sua madre. Ma i genitori non insegnavano più ai figli che
non sta bene fissare le persone?! Sì, era la settima volta: due
volte ci si era imbattuto salendo, poi tre scendendo, di nuovo una
quando saliva e poi una quando se ne andava. Sentì i pugni
contrarsi. L'occhio sinistro gli formicolava, ecco arrivare il solito
tic. Moccioso impertinente, con la sua facciona di mozzarella tutta
sporca di lentiggini... e quei capelli rossi! Il display segnava “2”.
Il ragno si mosse di mezzo centimetro verso il centro della sua
mirabile costruzione. Espirò lentamente e a lungo, socchiudendo gli
occhi. Speriamo sia sparito, sparisci, sparisci...! Li riaprì di
scatto e si trovò sempre piantate addosso le due fessure verdastre
del mostriciattolo. Un lieve clangore accompagnò il grande “3” a
cristalli liquidi rossi. Il “5” era ad una distanza immensa e la
palpebra sinistra si serrava ormai due o tre volte al secondo; per il
bimbo doveva proprio essere uno spettacolo molto divertente! Fissò
intensamente la nuca della madre, voleva bucarla e attraversarla fino
agli occhi, per farle capire che il figlio lo stava infastidendo e
andava punito. In quei casi ci volevano tre o quattro ceffoni a mano
aperta, in pieno viso, di quelli che ti esce il sangue dalla bocca e
dal naso e che ti rimane la macchia viola per un mese. Così faceva
suo padre, così si educavano i figli. Ci voleva disciplina, se no
poi quella era gente che finiva per rapinare i negozi e morire di
droghe e alcol. Invece lui guarda come era venuto su bene: un uomo
tutto d'un pezzo, tutto coerenza e senso del dovere!. Finalmente
arrivò il “5” tanto sospirato e le porte si aprirono di scatto;
finalmente libero, ciao ragno, ciao neon, ciao “5”, ciao rumore,
ciao signora, ciao bambino pestifero. Al bivio del corridoio prese a
sinistra e con la coda dell'occhio seguì i due fin quando
scomparvero; solo allora si sentì sollevato, come agli orali della
maturità, quando quell'ultima domanda sul Congresso di Vienna
l'aveva catapultato nel turbinio di spiaggia mare e vacanze. La
grande targa ovale d'ottone sopra il campanello ammiccava con
complicità, leggermente sbavata di rosso. Suonò guardandosi un
istante in giro con circospezione. Il lungo corridoio era deserto. Si
toccò il nodo alla cravatta, portò l'indice alla montatura di
tartaruga e si sforzò di stare più dritto possibile. Scostò il
nastro giallo e sospinse con cautela il pesante portone di mogano.
Salutò brevemente la dottoressa abbozzando un sorriso e si stese
come al solito sul lettino. Le nove, era in perfetto orario. Sentiva
che anche la dottoressa, seduta alle sue spalle con le gambe
accavallate, se ne compiaceva. La puntualità era un pregio che
denotava encomiabile fermezza di carattere e rispetto del prossimo.
“Dunque dottoressa, questa volta
vorrei iniziare raccontandole un sogno... ah, prima in ascensore
c'era quel bambino, quello stro... scusi, ma è proprio fastidioso,
fissa, fissa, ma che caz... cavolo guardi? E' la settima volta... E
la madre poi non gli ha detto nulla, poi dicono che i giovani sono
tutti delinquenti... ci credo... se lo facevo con mio padre... quella
volta mi ha dato cinquanta vergate con la cinta... ho ancora le
cicatrici... Basta dai, torniamo al sogno. Ecco, me lo sono segnato,
bisogna scriverli, come mi ha detto lei, se no poi si scordano, uno
pensa di ricordarli invece poi quando deve raccontarli non se li
ricorda...e allora ecco qui...”. Estrasse dalla tasca un foglio
stropicciato di un quaderno a scacchi grandi. “Sto camminando nella
via sotto casa mia, è giorno. Mi guardo i piedi e sono lunghissimi.
Indosso delle stranissime scarpe rosse a punta, da donna, col tacco.
Mi fanno male e non ci cammino bene. Non mi vedo tutto intero, vedo
solo le mie gambe con questi piedi lunghissimi e le scarpe da donna.
E' una bella giornata, c'è il sole e il cielo è limpidissimo.
Sembra estate, fa molto caldo. Ma non mi sento felice. In estate di
solito sono felice. Ho come una sensazione di disagio. Non è paura,
è come... come di qualcosa che mi fa schifo... tipo un gatto
spiaccicato per strada, con le budella di fuori e la lingua fra i
denti. Ma per strada non c'è nulla, neanche una macchina. Poi mi
accorgo... nel sogno dico... ho la sensazione di accorgermi che
qualcosa non torna... infatti non è proprio la strada di casa mia:
non ci sono né i lampioni né la fila di pioppi. Mi vedo dal di
fuori: sono piccolo, avrò otto o dieci anni. Indosso i jeans e
quelle scarpe strane di prima, ma ho i capelli lunghi e biondi, con
tanti boccoli. Non li ho mai avuti così. I miei sono castano scuro e
li ho sempre portati corti, anzi... già adesso che vado per i
quaranta sono abbastanza pelato...”. Gli sfuggì un sorriso ma
subito il tono tornò serio. “Sopra invece porto una maglietta
bianca, ma è a brandelli; sulla schiena ho dei solchi lunghi e
profondi che grondano sangue... lascio una scia di sangue dietro di
me man mano che cammino, ma non sento dolore. Poi la scena cambia
all'improvviso. Sprofondo in delle specie di sabbie mobili, ma come
di petrolio, nere. Mi dibatto con tutte le mie forze per respirare,
per uscire, per sopravvivere, ma alla fine vengo inghiottito. Cado in
una caverna. E' tutto buio e fa freddo. Cammino carponi in un tunnel
lungo e stretto. Sento sui palmi delle mani il viscido della
fanghiglia, la giacca mi si imbratta sempre di più di terra. Vado
avanti, non ho scelta, continuo a proseguire carponi di fronte a me,
anche se non vedo niente. Sento come una voce che mi dice di
continuare, c'è come una forza che mi spinge da dietro. Ad un certo
punto sbatto la testa su uno spuntone di roccia e mi cadono gli
occhiali; li calpesto col ginocchio e sento le lenti infrangersi.
Allora mi assale una paura cieca, mi sento perduto... poi d'un tratto
la paura si trasforma in odio, in collera, sempre qualcosa di cieco,
senza scampo... come qualcosa di... come dire...ineluttabile. Sì,
ecco: ineluttabile! Questa è la parola giusta! La scena cambia
ancora: sono di nuovo sulla stessa strada di prima, ma stavolta non
sono più bambino, sono grande. Sono vestito proprio come ora. Il
cielo non è più sereno ma tutto coperto di nuvoloni grigi e c'è lo
stesso freddo della grotta di prima. Sento che è proprio lo stesso
freddo dell'altra parte del sogno, trasportato lì dall'altra parte
del sogno voglio dire... ha capito cosa intendo dottoressa?”.
Abbozzò un mezzo sorriso, sospirò malinconico e riprese “ Vedo
venirmi incontro una moltitudine di gente; all'inizio sono tutti
minuscoli in fondo alla via lunghissima ma ad ogni passo guadagnano
decine di metri; in pochi istanti quella folla smisurata copre tutto
l'orizzonte, mi stanno davanti... ma non sono persone normali: sono
alti tre metri e tutti vestiti uguali, giacca cravatta pantaloni e
scarpe nere. Ma la cosa più inquietante è che non hanno volto. Al
posto della faccia hanno quell'alone che mettono alla televisione per
nascondere l'identità dell'intervistato. Mi guardo le mani e vedo
che mi è spuntato un coltello, un lunghissimo coltello da cucina.
Poi le mani e il coltello sono tutti sporchi di sangue. Ecco, finito!
Il sogno finisce così. L'ho fatto tre notti fa. Che ne pensa,
dottoressa?... Ops, mi scusi dottoressa, vedo che il tempo è
scaduto, sono le dieci in punto; vorrà dire che me lo spiegherà
nella prossima seduta. Bene, ora vado, buongiorno dottoressa”.
Andando alla porta inciampò in un contrassegno giallo di plastica
con un numero nero a caratteri cubitali. Lo rimise in piedi e restò
un attimo perplesso: tutto attorno sulla moquette c'era una grande
macchia scura. Strano, entrando non ci aveva fatto caso. “Ah
dottoressa...”, si riscosse di colpo accendendosi freneticamente in
viso, “le è caduta la penna...”. Raccolse un'elegante
stilografica in argento che spuntava da sotto un comò ribaltato e la
appoggiò sulla sedia vuota dietro al lettino su cui giaceva fino a
un attimo prima. “Di nuovo buona giornata, ci vediamo lunedì
prossimo. Puntuale alle nove, come sempre”. Rivolse un ultimo cenno
di saluto alla sedia vuota, riattaccò allo stipite il nastro giallo
e prese le scale. Niente ascensore questa volta. A quell'ora la
ragnatela del ragno aveva intasato tutta la cabina. E poi il solo
pensiero di rivedere quel ragazzino lo faceva uscire dai gangheri. E
non era proprio il caso di guastare il momento... dopo la terapia con
la dottoressa Paolucci si sentiva così bene... bene da morire!!!
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