martedì 4 settembre 2012

IL NAUFRAGO FELICE

Schizzò a sedere spaventato e urtò sbadatamente il suo martini. Si passò una mano sulla fronte ma fu subito rapito dal bikini bianco e dagli occhi verdi. I pantaloncini erano zuppi. Per fortuna il bicchiere rotolava ancora tutto intero sul tavolino in legno. Gli si fece incontro frettolosamente, troppo bella e troppo giovane, gesticolando sbarazzina.
“Ops, mi scusi signore, non volevo...”
“Non fa nulla signorina”, abbozzò sorridendo, “anzi grazie, se continuavo a dormire qui mi ustionavo!”.
La sirenetta lo fulminò con un sorriso disarmante, salutò con la mano e si rituffò a bomba nella piscina investendolo di nuovo con una secchiata d'acqua e scomparendo tra le risate e le grida.
Si alzò, mosse qualche passo e gettò lo sguardo oltre il parapetto, assaporando in raccoglimento l'azzurro del mare a perdita d'occhio e la spessa spuma bianca della scia. Riconoscendo nel groviglio di costumi bracciali e palloni i lunghi capelli castani e lo sguardo ammaliante e felino della sua attentatrice, non poté fare a meno di alzare gli occhi al cielo e sorridere dietro i ray-ban scuri: doveva essere a tutti gli effetti un segno del destino.

Appoggiò per terra la canna e il borsone e bussò ancora una volta, più pesantemente. Chiamò l'amico ad alta voce. Accostò l'orecchio alla porta ma dalla casa non giungeva alcun rumore. Lanciò un'occhiata prolungata all'orologio, come se sul quadrante potesse leggere di un altro impegno o di un improrogabile appuntamento. Elemosinò una spiegazione anche al testo di lasagne che la moglie come ogni domenica gli aveva preparato per la loro uscita di pesca, ma fu tutto vano. Più stupito che seccato fece per raccogliere l'attrezzatura dando le spalle all'ingresso, quando gli giunse nitido il trillo del telefono. Quattro squilli, cinque... silenzio...; al decimo impugnò senza pensarci il pomello e la porta si rivelò insolitamente aperta. Sollevò la cornetta proprio nell'attimo in cui l'apparecchio si ammutolì.
“Franco...”, esclamò osservando la stretta scala a chiocciola che saliva al secondo piano.
“Franco!”, urlò con voce più decisa, turbato da uno strano presentimento. Sul tavolo al centro della sala era dispiegata una mappa nautica ingiallita ma dai colori vivaci. Accanto un taccuino con copertina in cuoio e una stilografica in mezzo. Si guardò intorno con un po' di esitazione, poi lo aprì alla pagina dove era infilata la penna.
C'era un elenco con due soli punti: “1) Rob. Crusuè 2) Vera storia Long John Silver”. Lo stesso tratto nero martoriava estese porzioni della cartina: erano appuntati orari e numeri, forse coordinate.
Ebbe un'illuminazione, compose il numero alla velocità della luce e si incollò il cellulare all'orecchio in fremente attesa. Un forte brusio lo attirò al comò vicino all'ingresso: il telefonino saltellava sul posto e da una ciotola in legno strabordava un groviglio di chiavi colorate. Sospirando spense il nokia dell'amico e si accorse di una busta con il logo dell'ospedale che spuntava dal cestino ai piedi del mobiletto.
La data era di due settimane fa. Due fogli A4 grappettati assieme. In uno una lunghissima tabella a colonne verdi e gialle, piena di cifre, intervalli di valori e parole astruse. In fondo all'altro cinque righe grassettate in rosso. Sgranò gli occhi, dischiuse istintivamente le labbra, il pensiero gli morì in gola. Rimase immobile nella casa deserta. Sopra di lui il secondo piano, con un bagno e la camera da letto. Più su ancora la mansarda, il vecchio divano logoro con la coperta di lana rattoppata, il caminetto e l'ingombrante televisore impolverato. Le carte gli scivolarono di mano.

Franco fissava il soffitto della cuccetta. Il lieve rollio di quella reggia galleggiante cullava le sue meditazioni infondendogli un ardore e un ottimismo mai provati prima. Consultò nervosamente l'orologio subacqueo: erano passati cinque minuti, e cinque minuti ancora dalla volta prima. Mise l'orecchia alla pagina del libro, lo ripose malamente nel borsone impermeabile e salì in coperta. Il ponte era spazzato da una brezza delicata, quasi impalpabile e il parquet luccicava al pallido bagliore lunare. Si guardò intorno. Alla sua destra una sottile lingua di fumo si stagliava dalla sagoma immobile di una coppietta appoggiata al corrimano di poppa, ad una ventina di metri. Dall'altra parte una ragazza sonnecchiava stesa sull'asciugamano, gli auricolari sepolti sotto una foresta di ricci biondi. Lo scintillio del piercing all'ombelico accompagnava sensuale il lieve sussulto del respiro, il bikini arancione esaltava la seducente carnagione olivastra.
Appoggiò a terra lo zaino che teneva in spalla e scrutò il mare e l'orizzonte che formavano un'indistinta amalgama turchina. Non aveva punti di riferimento ma si fidava ciecamente dei suoi calcoli, aveva consumato troppe notti ad arrovellarcisi e a rivederli. Diede un'ultima occhiata ai potenziali testimoni, poi si sfilò in fretta i vestiti e li pressò nella sacca.
La ragazza si tirò su a sedere, staccandosi le cuffie dalle orecchie con un'espressione tra il perplesso e l'assonnato. Per un attimo le era sembrato che un tonfo estraneo si fosse insinuato nei suoi ritmi martellanti e indiavolati. Lo sciabordio delle onde sullo scafo era placido e regolare. Le uniche altre due persone sul ponte erano sempre intente a scambiarsi effusioni. La pigrizia ebbe la meglio sul dubbio, quindi, seppur arricciando le labbra in una smorfia d'indecisione, sistemò i due triangolini sul seno prosperoso e continuò a farsi stordire dalla sua musica.

La moglie accorse trafelata al suono del campanello, alquanto seccata per essere stata interrotta nelle preziosissime e delicatissime operazioni di bellezza e restauro. Avrebbe scommesso che erano i testimoni di Geova e visto il disprezzo che nutriva per loro non si sarebbe nemmeno vergognata di presentarsi coi bigodini e la maschera verde acido al cetriolo.
“Che ci fai qui? Non dovevate andare a pesca??”. La sorpresa fu grande nel trovarsi di fronte il marito uscito di casa nemmeno un'ora prima, col ridicolo gilet mimetico a dodici tasche, il cappellino a caciotta grigio e il testo di lasagne sorretto a due mani.
“Tumore... un tumore al pancreas”, balbettò inebetito.
La moglie rimase impietrita sull'uscio. “Cosa?? Luigi... tu??? ... da quando??”, farfugliò.
Il marito sgattaiolò in casa lasciando sul vialetto zaino e canna da pesca. Appena varcata la soglia la afferrò saldamente per le spalle.
“Franco ha un tumore al pancreas... almeno credo... sì sì, l'ho letto... l'ho visto... in una lettera dell'ospedale”. La moglie non seppe che rispondere, gli occhi spalancati e fissi in quelli di lui, uniti nello sconcerto. Rimasero così, nell'atmosfera pesante della casa vuota, come malinconici istrioni di una parata carnevalesca teletrasportati di colpo altrove.

La mastodontica sagoma scemava all'orizzonte nella notte chiara mentre Franco dandole le spalle nuotava lentamente. Sarebbe arrivato in un'ora, secondo i suoi calcoli. Si fermò un secondo per controllare che il borsone non assorbisse acqua ma sembrava tutto a posto. In lontananza un delfino saltava nella scia della nave e qualche piccolo oblò si illuminava repentino.
Fece un respiro profondo e riprese a nuotare. La direzione era giusta, il difficile era resistere un'intera mezz'ora. Per fortuna andava in palestra tre volte la settimana, altrimenti la sedentarietà da piccolo burocrate lo avrebbe condannato. Il pensiero lo fece sorridere, in fondo non lo era lo stesso, condannato? Iniziò a fendere le onde con bracciate più energiche e a muovere le gambe con più veemenza: no, non era condannato... al contrario, era più che mai libero!
Iniziava ad accusare la stanchezza, il respiro si era fatto affannoso. Non riusciva più a mantenere la postura e procedeva con la testa fuori. Il mare si era ingrossato e ogni tanto beveva un pochino. Si lasciò galleggiare supino, distendendo bene gambe e braccia per riprendere fiato e raccogliere le ultime forze. Le stelle brillavano intensamente e la luna era enorme, si distinguevano i dettagli dei crateri. Allungò una mano come a volerla toccare, sembrava che quel cielo così terso da essere quasi surreale iniziasse a un metro dal suo viso.
Niente male per un cinquantaduenne. Figurarsi se il suo amico Luigi ce l'avrebbe fatta... Lo zaino galleggiava consolante al suo fianco. Un'occhiata all'orologio: l''ultimo sforzo.

Planò sul bagnasciuga finendo a gattoni e rimase qualche minuto a boccheggiare a faccia in giù, mezzo insabbiato e coi capelli impiastricciati di alghe e qualche rametto. Per prima cosa serviva un posto dove passare la notte. Tirò all'asciutto lo zaino, si asciugò col telo da mare e si rivestì: sandali di cuoio, pantaloncini corti e camicia hawaiana rossa a fiori bianchi. Si tolse l'orologio e lo scagliò lontano fra i flutti. Scorse ad una ventina di metri una piccola grotta che faceva al caso suo. Avrebbe dormito lì. Era una nicchia lunga non più di tre metri e doveva camminare carponi per non sbattere la testa. Il terriccio era umido e dal soffitto pendevano escrescenze di roccia grandi quanto un pugno. Intanto aveva iniziato a piovere debolmente.
Dispose a terra, una a fianco all'altra, le poche cose che si era portato dietro, per fare mente locale in previsione del nuovo giorno che lo attendeva: “Robinson Crusoe”, di Daniel Defoe, in edizione economica, stretto e spesso, copertina bianca; “La vera storia del pirata Long John Silver” di Bjorn Larsson , un bel tomone in copertina grigia; un piccolo machete per tagliare arbusti, se ce ne fosse stato bisogno; un coltello da caccia a lama liscia e seghettata; un fornelletto da campo; tre scatole di fiammiferi e trenta accendini; una coperta di lana a quadri rossi e blu; una felpa della nike con cappuccio e un k-way; un unico gavettino per mangiare e bere; un rotolo di nastro isolante e infine una ventina di metri di corda.
Per il resto avrebbe improvvisato, magari prendendo spunto dalle letture. Voleva vivere quell'avventura così come veniva, tanto sarebbe durata due o tre mesi al massimo. Sapeva che c'era un fiume, quindi per l'acqua era a posto. Dovevano esserci capre e conigli: con una capra poteva tirare avanti una settimana e male che andava, se non catturava niente, poteva approfittare di bacche e noci di cocco.
Sporse la testa dal rifugio, gli occhi chiusi rivolti al cielo plumbeo e la bocca spalancata ad accogliere la pioggia ora più insistente. Rimpianse la mancanza di un recipiente per raccoglierla e si ripromise che l'indomani se ne sarebbe costruito o procurato uno. Nei suoi progetti comunque il fiume restava sempre la principale risorsa per dissetarsi e lavarsi. Stese la coperta e ci si rannicchiò sopra. Rabbrividì un istante e starnutì forte. Si infilò la tuta e si mise sotto la coperta, a contatto col terreno. Faticava a prendere sonno, irritato dal pizzicore lieve ma costante delle formiche sulle gambe nude.
Lo svegliò un rigagnolo che dal soffitto gli colò sulla guancia. Si stropicciò gli occhi, dall'ingresso filtrava luce. Doveva essere tarda mattinata, le dieci e mezza o forse le undici, a giudicare dal caldo. Si tolse la felpa e uscì all'aperto. La notte scorsa non si era accorto che lì intorno era tutto pieno di palme. Si fermò a contemplare il suo nuovo regno. Dopo un'esigua striscia di fine sabbia bianca iniziava un'intricata boscaglia che ammantava pendii via via più scoscesi; un monticello si ergeva proprio alle sue spalle. Decise di puntare in quella direzione. Mentre si apriva il sentiero col machete variopinti stormi di farfalle vorticavano fra i rami più alti.
Assaggiò le piccole bacche rosse che pinticchiavano gli arbusti bassi: avevano un sapore dolciastro lievemente nauseante. Ogni tanto al suo passaggio una lepre saettava nei cespugli. Sedette un momento a riposare su un grosso masso levigato, lungo e piatto. Posò il machete asciugandosi la fronte col fazzoletto e scrutando il cielo. Fra gli sprazzi di sole e il verde delle chiome grappoli di gigantesche noci di cocco calamitavano la sua attenzione: se non avesse trovato il fiume avrebbe potuto ricavarci acqua potabile. Per costruire il cesto in cui accumularla avrebbe usato quelle liane, che come ragnatele calavano dai tronchi e si concentravano in un fitto intrico ad altezza d'uomo.
D'improvviso un crepitio alle sue spalle lo fece trasalire. Schizzò in piedi brandendo il machete verso l'energumeno che gli si parava dinnanzi. Dal tricorno piumato partiva una folta e incolta barba corvina. Una vistosa cicatrice tagliava obliquamente il viso dallo zigomo alla bocca, interrotta solo dalla benda nera sull'occhio destro. Portava una camicia di cotone bianca e sborsante senza colletto, pantaloni alla zuava grigi e stivali in cuoio con risvolto. Dalla fusciacca rossa in vita pendeva una scimitarra palesemente finta, di quelle di plastica. Sulla spalla era cucito un peluche di pappagallo giallo blu e rosso, frusto e sporco.
“Hai trovato la mappa del tesoro??!!”, ringhiò lo sconosciuto.
Franco rimase interdetto.
“L'hai presa tu!!!”, urlò il bislacco pirata.
“... Chi sei? Credevo che quest'isola fosse deserta...”, balbettò Franco prima di sentire le gambe cedere di schianto. Si contorceva a terra spasmodicamente, la vista era sempre più offuscata. Percorso dalla folgorazione l'ultimo pensiero fu per quel bestione che gli si avventava contro.
Lentamente le cose attorno prendevano forma e acquistavano nitidezza. Sembrava una stanza d'ospedale. Cercò di alzarsi ma riuscì solo a sollevare il collo quanto bastava per vedere i polsi e le caviglie bloccati da bracciali. Era nudo sotto un ampio camice verde.
“Li abbiamo catturati dottore”, disse una voce compiaciuta alle sue spalle.
Su un lettino di fianco al suo giaceva il possente corsaro, immobilizzato e ancora privo di sensi.
“Volevate farvi una vacanza, eh? Giocavate alla caccia al tesoro??!”, l'apostrofò un ometto calvo con uno striminzito pizzetto bianco e dei minuscoli occhiali tondi. Appuntata al camice una targhetta: “Dott. Alfonsi”.
“C'è un errore, vi sbagliate! Io non sono matto, non lo conosco questo qui, mi chiamo Franco Virg...”
“Certo certo come no”, asserì il medico in tono aspro e indifferente iniettandogli al collo una siringa di liquido verde. Si sentì come stretto in una morsa potentissima. Voleva parlare ma non articolava nessun suono. Non riusciva a muovere un muscolo. Roteando per la stanza gli occhi sempre più pesanti vide un nugolo di infermieri che si indaffarava attorno al suo letto.
“Credevi di averla scampata ma ti è andata male. Non andrai più da nessuna parte. Preparatelo per la lobotomia.”, sentenziò il dottor Alfonsi.
Intanto sulla spiaggia, poco distante dalla grotta dove aveva dormito la notte prima, un'onda più potente delle altre scopriva parzialmente una mano rattrappita. Un gabbiano planò delicatamente sull'indice. Assestò qualche beccata, scagliò freneticamente in giro gli occhietti neri e spiccò il volo a pelo dell'acqua.

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