Schizzò a sedere spaventato e urtò
sbadatamente il suo martini. Si passò una mano sulla fronte ma fu
subito rapito dal bikini bianco e dagli occhi verdi. I pantaloncini
erano zuppi. Per fortuna il bicchiere rotolava ancora tutto intero
sul tavolino in legno. Gli si fece incontro frettolosamente, troppo
bella e troppo giovane, gesticolando sbarazzina.
“Ops, mi scusi signore, non
volevo...”
“Non fa nulla signorina”, abbozzò
sorridendo, “anzi grazie, se continuavo a dormire qui mi
ustionavo!”.
La sirenetta lo fulminò con un sorriso
disarmante, salutò con la mano e si rituffò a bomba nella piscina
investendolo di nuovo con una secchiata d'acqua e scomparendo tra le
risate e le grida.
Si alzò, mosse qualche passo e gettò
lo sguardo oltre il parapetto, assaporando in raccoglimento l'azzurro
del mare a perdita d'occhio e la spessa spuma bianca della scia.
Riconoscendo nel groviglio di costumi bracciali e palloni i lunghi
capelli castani e lo sguardo ammaliante e felino della sua
attentatrice, non poté fare a meno di alzare gli occhi al cielo e
sorridere dietro i ray-ban scuri: doveva essere a tutti gli effetti
un segno del destino.
Appoggiò per terra la canna e il
borsone e bussò ancora una volta, più pesantemente. Chiamò l'amico
ad alta voce. Accostò l'orecchio alla porta ma dalla casa non
giungeva alcun rumore. Lanciò un'occhiata prolungata all'orologio,
come se sul quadrante potesse leggere di un altro impegno o di un
improrogabile appuntamento. Elemosinò una spiegazione anche al testo
di lasagne che la moglie come ogni domenica gli aveva preparato per
la loro uscita di pesca, ma fu tutto vano. Più stupito che seccato
fece per raccogliere l'attrezzatura dando le spalle all'ingresso,
quando gli giunse nitido il trillo del telefono. Quattro squilli,
cinque... silenzio...; al decimo impugnò senza pensarci il pomello e
la porta si rivelò insolitamente aperta. Sollevò la cornetta
proprio nell'attimo in cui l'apparecchio si ammutolì.
“Franco...”, esclamò osservando la
stretta scala a chiocciola che saliva al secondo piano.
“Franco!”, urlò con voce più
decisa, turbato da uno strano presentimento. Sul tavolo al centro
della sala era dispiegata una mappa nautica ingiallita ma dai colori
vivaci. Accanto un taccuino con copertina in cuoio e una stilografica
in mezzo. Si guardò intorno con un po' di esitazione, poi lo aprì
alla pagina dove era infilata la penna.
C'era un elenco con due soli punti: “1)
Rob. Crusuè 2) Vera storia Long John Silver”. Lo stesso
tratto nero martoriava estese porzioni della cartina: erano appuntati
orari e numeri, forse coordinate.
Ebbe un'illuminazione, compose il
numero alla velocità della luce e si incollò il cellulare
all'orecchio in fremente attesa. Un forte brusio lo attirò al comò
vicino all'ingresso: il telefonino saltellava sul posto e da una
ciotola in legno strabordava un groviglio di chiavi colorate.
Sospirando spense il nokia dell'amico e si accorse di una busta con
il logo dell'ospedale che spuntava dal cestino ai piedi del
mobiletto.
La data era di due settimane fa. Due
fogli A4 grappettati assieme.
In uno una lunghissima tabella a colonne verdi e gialle, piena di
cifre, intervalli di valori e parole astruse. In fondo all'altro
cinque righe grassettate in rosso. Sgranò gli occhi, dischiuse
istintivamente le labbra, il pensiero gli morì in gola. Rimase
immobile nella casa deserta. Sopra di lui il secondo piano, con un
bagno e la camera da letto. Più su ancora la mansarda, il vecchio
divano logoro con la coperta di lana rattoppata, il caminetto e
l'ingombrante televisore impolverato. Le carte gli scivolarono di
mano.
Franco fissava il soffitto della
cuccetta. Il lieve rollio di quella reggia galleggiante cullava le
sue meditazioni infondendogli un ardore e un ottimismo mai provati
prima. Consultò nervosamente l'orologio subacqueo: erano passati
cinque minuti, e cinque minuti ancora dalla volta prima. Mise
l'orecchia alla pagina del libro, lo ripose malamente nel borsone
impermeabile e salì in coperta. Il ponte era spazzato da una brezza
delicata, quasi impalpabile e il parquet luccicava al pallido
bagliore lunare. Si guardò intorno. Alla sua destra una sottile
lingua di fumo si stagliava dalla sagoma immobile di una coppietta
appoggiata al corrimano di poppa, ad una ventina di metri. Dall'altra
parte una ragazza sonnecchiava stesa sull'asciugamano, gli auricolari
sepolti sotto una foresta di ricci biondi. Lo scintillio del piercing
all'ombelico accompagnava sensuale il lieve sussulto del respiro, il
bikini arancione esaltava la seducente carnagione olivastra.
Appoggiò a terra lo zaino che teneva
in spalla e scrutò il mare e l'orizzonte che formavano un'indistinta
amalgama turchina. Non aveva punti di riferimento ma si fidava
ciecamente dei suoi calcoli, aveva consumato troppe notti ad
arrovellarcisi e a rivederli. Diede un'ultima occhiata ai potenziali
testimoni, poi si sfilò in fretta i vestiti e li pressò nella
sacca.
La ragazza si tirò su a sedere,
staccandosi le cuffie dalle orecchie con un'espressione tra il
perplesso e l'assonnato. Per un attimo le era sembrato che un tonfo
estraneo si fosse insinuato nei suoi ritmi martellanti e indiavolati.
Lo sciabordio delle onde sullo scafo era placido e regolare. Le
uniche altre due persone sul ponte erano sempre intente a scambiarsi
effusioni. La pigrizia ebbe la meglio sul dubbio, quindi, seppur
arricciando le labbra in una smorfia d'indecisione, sistemò i due
triangolini sul seno prosperoso e continuò a farsi stordire dalla
sua musica.
La moglie accorse trafelata al suono
del campanello, alquanto seccata per essere stata interrotta nelle
preziosissime e delicatissime operazioni di bellezza e restauro.
Avrebbe scommesso che erano i testimoni di Geova e visto il disprezzo
che nutriva per loro non si sarebbe nemmeno vergognata di presentarsi
coi bigodini e la maschera verde acido al cetriolo.
“Che ci fai qui? Non dovevate andare
a pesca??”. La sorpresa fu grande nel trovarsi di fronte il marito
uscito di casa nemmeno un'ora prima, col ridicolo gilet mimetico a
dodici tasche, il cappellino a caciotta grigio e il testo di lasagne
sorretto a due mani.
“Tumore... un tumore al pancreas”,
balbettò inebetito.
La moglie rimase impietrita sull'uscio.
“Cosa?? Luigi... tu??? ... da quando??”, farfugliò.
Il marito sgattaiolò in casa lasciando
sul vialetto zaino e canna da pesca. Appena varcata la soglia la
afferrò saldamente per le spalle.
“Franco ha un tumore al pancreas...
almeno credo... sì sì, l'ho letto... l'ho visto... in una lettera
dell'ospedale”. La moglie non seppe che rispondere, gli occhi
spalancati e fissi in quelli di lui, uniti nello sconcerto. Rimasero
così, nell'atmosfera pesante della casa vuota, come malinconici
istrioni di una parata carnevalesca teletrasportati di colpo altrove.
La mastodontica sagoma scemava
all'orizzonte nella notte chiara mentre Franco dandole le spalle
nuotava lentamente. Sarebbe arrivato in un'ora, secondo i suoi
calcoli. Si fermò un secondo per controllare che il borsone non
assorbisse acqua ma sembrava tutto a posto. In lontananza un delfino
saltava nella scia della nave e qualche piccolo oblò si illuminava
repentino.
Fece un respiro profondo e riprese a
nuotare. La direzione era giusta, il difficile era resistere
un'intera mezz'ora. Per fortuna andava in palestra tre volte la
settimana, altrimenti la sedentarietà da piccolo burocrate lo
avrebbe condannato. Il pensiero lo fece sorridere, in fondo non lo
era lo stesso, condannato? Iniziò a fendere le onde con bracciate
più energiche e a muovere le gambe con più veemenza: no, non era
condannato... al contrario, era più che mai libero!
Iniziava ad accusare la stanchezza, il
respiro si era fatto affannoso. Non riusciva più a mantenere la
postura e procedeva con la testa fuori. Il mare si era ingrossato e
ogni tanto beveva un pochino. Si lasciò galleggiare supino,
distendendo bene gambe e braccia per riprendere fiato e raccogliere
le ultime forze. Le stelle brillavano intensamente e la luna era
enorme, si distinguevano i dettagli dei crateri. Allungò una mano
come a volerla toccare, sembrava che quel cielo così terso da essere
quasi surreale iniziasse a un metro dal suo viso.
Niente male per un cinquantaduenne.
Figurarsi se il suo amico Luigi ce l'avrebbe fatta... Lo zaino
galleggiava consolante al suo fianco. Un'occhiata all'orologio:
l''ultimo sforzo.
Planò sul bagnasciuga finendo a
gattoni e rimase qualche minuto a boccheggiare a faccia in giù,
mezzo insabbiato e coi capelli impiastricciati di alghe e qualche
rametto. Per prima cosa serviva un posto dove passare la notte. Tirò
all'asciutto lo zaino, si asciugò col telo da mare e si rivestì:
sandali di cuoio, pantaloncini corti e camicia hawaiana rossa a fiori
bianchi. Si tolse l'orologio e lo scagliò lontano fra i flutti.
Scorse ad una ventina di metri una piccola grotta che faceva al caso
suo. Avrebbe dormito lì. Era una nicchia lunga non più di tre metri
e doveva camminare carponi per non sbattere la testa. Il terriccio
era umido e dal soffitto pendevano escrescenze di roccia grandi
quanto un pugno. Intanto aveva iniziato a piovere debolmente.
Dispose a terra, una a fianco
all'altra, le poche cose che si era portato dietro, per fare mente
locale in previsione del nuovo giorno che lo attendeva: “Robinson
Crusoe”, di Daniel Defoe, in edizione economica, stretto
e spesso, copertina bianca; “La vera storia del pirata Long John
Silver” di Bjorn Larsson , un bel tomone in copertina
grigia; un piccolo machete per tagliare arbusti, se ce ne fosse stato
bisogno; un coltello da caccia a lama liscia e seghettata; un
fornelletto da campo; tre scatole di fiammiferi e trenta accendini;
una coperta di lana a quadri rossi e blu; una felpa della nike con
cappuccio e un k-way; un unico gavettino per mangiare e bere; un
rotolo di nastro isolante e infine una ventina di metri di corda.
Per il resto avrebbe improvvisato,
magari prendendo spunto dalle letture. Voleva vivere quell'avventura
così come veniva, tanto sarebbe durata due o tre mesi al massimo.
Sapeva che c'era un fiume, quindi per l'acqua era a posto. Dovevano
esserci capre e conigli: con una capra poteva tirare avanti una
settimana e male che andava, se non catturava niente, poteva
approfittare di bacche e noci di cocco.
Sporse la testa dal rifugio, gli occhi
chiusi rivolti al cielo plumbeo e la bocca spalancata ad accogliere
la pioggia ora più insistente. Rimpianse la mancanza di un
recipiente per raccoglierla e si ripromise che l'indomani se ne
sarebbe costruito o procurato uno. Nei suoi progetti comunque il
fiume restava sempre la principale risorsa per dissetarsi e lavarsi.
Stese la coperta e ci si rannicchiò sopra. Rabbrividì un istante e
starnutì forte. Si infilò la tuta e si mise sotto la coperta, a
contatto col terreno. Faticava a prendere sonno, irritato dal
pizzicore lieve ma costante delle formiche sulle gambe nude.
Lo svegliò un rigagnolo che dal
soffitto gli colò sulla guancia. Si stropicciò gli occhi,
dall'ingresso filtrava luce. Doveva essere tarda mattinata, le dieci
e mezza o forse le undici, a giudicare dal caldo. Si tolse la felpa e
uscì all'aperto. La notte scorsa non si era accorto che lì intorno
era tutto pieno di palme. Si fermò a contemplare il suo nuovo regno.
Dopo un'esigua striscia di fine sabbia bianca iniziava un'intricata
boscaglia che ammantava pendii via via più scoscesi; un monticello
si ergeva proprio alle sue spalle. Decise di puntare in quella
direzione. Mentre si apriva il sentiero col machete variopinti stormi
di farfalle vorticavano fra i rami più alti.
Assaggiò le piccole bacche rosse che
pinticchiavano gli arbusti bassi: avevano un sapore dolciastro
lievemente nauseante. Ogni tanto al suo passaggio una lepre saettava
nei cespugli. Sedette un momento a riposare su un grosso masso
levigato, lungo e piatto. Posò il machete asciugandosi la fronte col
fazzoletto e scrutando il cielo. Fra gli sprazzi di sole e il verde
delle chiome grappoli di gigantesche noci di cocco calamitavano la
sua attenzione: se non avesse trovato il fiume avrebbe potuto
ricavarci acqua potabile. Per costruire il cesto in cui accumularla
avrebbe usato quelle liane, che come ragnatele calavano dai tronchi e
si concentravano in un fitto intrico ad altezza d'uomo.
D'improvviso un crepitio alle sue
spalle lo fece trasalire. Schizzò in piedi brandendo il machete
verso l'energumeno che gli si parava dinnanzi. Dal tricorno piumato
partiva una folta e incolta barba corvina. Una vistosa cicatrice
tagliava obliquamente il viso dallo zigomo alla bocca, interrotta
solo dalla benda nera sull'occhio destro. Portava una camicia di
cotone bianca e sborsante senza colletto, pantaloni alla zuava grigi
e stivali in cuoio con risvolto. Dalla fusciacca rossa in vita
pendeva una scimitarra palesemente finta, di quelle di plastica.
Sulla spalla era cucito un peluche di pappagallo giallo blu e rosso,
frusto e sporco.
“Hai trovato la mappa del
tesoro??!!”, ringhiò lo sconosciuto.
Franco rimase interdetto.
“L'hai presa tu!!!”, urlò il
bislacco pirata.
“... Chi sei? Credevo che quest'isola
fosse deserta...”, balbettò Franco prima di sentire le gambe
cedere di schianto. Si contorceva a terra spasmodicamente, la vista
era sempre più offuscata. Percorso dalla folgorazione l'ultimo
pensiero fu per quel bestione che gli si avventava contro.
Lentamente le cose attorno prendevano
forma e acquistavano nitidezza. Sembrava una stanza d'ospedale. Cercò
di alzarsi ma riuscì solo a sollevare il collo quanto bastava per
vedere i polsi e le caviglie bloccati da bracciali. Era nudo sotto un
ampio camice verde.
“Li abbiamo catturati dottore”,
disse una voce compiaciuta alle sue spalle.
Su un lettino di fianco al suo giaceva
il possente corsaro, immobilizzato e ancora privo di sensi.
“Volevate farvi una vacanza, eh?
Giocavate alla caccia al tesoro??!”, l'apostrofò un ometto calvo
con uno striminzito pizzetto bianco e dei minuscoli occhiali tondi.
Appuntata al camice una targhetta: “Dott. Alfonsi”.
“C'è un errore, vi sbagliate! Io non
sono matto, non lo conosco questo qui, mi chiamo Franco Virg...”
“Certo certo come no”, asserì il
medico in tono aspro e indifferente iniettandogli al collo una
siringa di liquido verde. Si sentì come stretto in una morsa
potentissima. Voleva parlare ma non articolava nessun suono. Non
riusciva a muovere un muscolo. Roteando per la stanza gli occhi
sempre più pesanti vide un nugolo di infermieri che si indaffarava
attorno al suo letto.
“Credevi di averla scampata ma ti è
andata male. Non andrai più da nessuna parte. Preparatelo per la
lobotomia.”, sentenziò il dottor Alfonsi.
Intanto sulla spiaggia, poco distante
dalla grotta dove aveva dormito la notte prima, un'onda più potente
delle altre scopriva parzialmente una mano rattrappita. Un gabbiano
planò delicatamente sull'indice. Assestò qualche beccata, scagliò
freneticamente in giro gli occhietti neri e spiccò il volo a pelo
dell'acqua.
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