martedì 4 settembre 2012

ALLARME ROSSO

La chiamata mi aveva profondamente turbato. Premetti il tasto giallo sotto il semi-manubrio di destra e la moto ad aero-propulsione si catapultò a 315 Km/h senza il minimo rumore, squarciando il deserto con una fulva scia schiumosa. All'orizzonte iniziava a stagliarsi l'enorme cancellata. Il puntino blu al centro sapevo essere il cartello metallico che scoraggiava potenziali intrusi con la minaccia dell'alta tensione. Azionando il pulsante sotto il semi-manubrio di sinistra vidi accendersi in lontananza il lampeggiante e il cancello si ritrasse fino a lasciare il solito varco di cinque metri. Non sapendo chi o cosa avrei trovato oltre quella soglia saltai giù di sella appena l'ebbi varcata. I sensori di peso spensero il reattore, la moto fluttuò ancora qualche secondo e andò ad adagiarsi contro la postazione di controllo. Era sinistramente deserta. L'allarme proveniva dal laboratorio 1. Estrassi la pistola laser e mi guardai intorno con circospezione. Non un rumore. La struttura è piuttosto semplice: dopo il quadrato del muro di cinta con la cancellata d'ingresso c'è il gabbiotto dove Sam scansiona il personale e il materiale in entrata e in uscita; da lì una lingua d'asfalto sufficiente al transito dei cingolati più grossi porta dritta all'imponente silos centrale. Quello è il laboratorio 1: un cilindro largo trenta metri e alto una cinquantina, senza finestre, fasciato a mezz'altezza da una banda rossa su cui campeggia il numero corrispondente. Certo noi militari non brilliamo di fantasia quanto a planimetrie architettoniche: rispettivamente alla sua sinistra e alla sua destra si ergono altri due torrioni differenti solo per i numeri che recano verniciati: il 2 e il 3. Dall'esterno nulla comunica la maggior importanza del laboratorio 1 rispetto ai suoi gemelli, ma di fatto quest'ultimi sono semplici magazzini di stoccaggio per attrezzature, macchinari e sostanze chimiche.
Notai che dalla guardiola partivano orme molto distanziate. Sam doveva essersi precipitato verso il laboratorio. Il perimetro non era stato violato. Come avevo potuto constatare io stesso il cancello funzionava correttamente e nel muro di cinta non erano visibili brecce o altri segni d'effrazione. Qualsiasi cosa fosse era rimasta là dentro. Visto il genere di esperimenti che vi conducevano non ero affatto tranquillo. “E' fuggito... aiuto!... fuori controllo... uccidendo...”, grida e rumori di fondo, poi la comunicazione si era interrotta. Una folata improvvisa mi gettò sabbia negli occhi. “Ingegneria genetica”, bisbigliai. Scansione positiva di retina ed impronte digitali ed ero dentro. Silenzio più assoluto. Di fronte a me un lungo corridoio con ai lati due file di porte numerate progressivamente. Erano tutte aperte e da alcuni spiragli si intravvedevano documenti sparpagliati a terra e sedie rovesciate. Mi avvicinai alla prima. Un rumore di vetri rotti mi fece sussultare: avevo calpestato un paio di occhiali. Le lenti in frantumi erano inzaccherate da una poltiglia rossastra. Mi chinai e toccai con indice e medio quell'impiastro: sangue, come temevo. Allargai un po' la porta ed entrai con cautela, l'arma sempre puntata ovunque guardassi. Jack, lo scienziato che supervisionava i progetti, era a terra supino, vicino alla scrivania. Il volto era a brandelli, come raschiato via. Erano netti i solchi di quattro artigli. Gli intestini erano ammucchiati accanto al corpo come zolle rivoltate. Un braccio tranciato di netto spuntava da sotto il mobile di fronte all'ingresso. Le ante erano divelte e molte provette erano polverizzate sul pavimento tappezzato di fogli. I muri erano imbrattati di chiazze di sangue e pezzi di interiora. Deborah, la prima assistente di Jack era riversa sulla sedia, ben lontana dalla postazione. Gli occhi vitrei puntavano il soffitto e la bocca era disgustosamente aperta in un ghigno di terrore e stupore. La gola le era stata strappata a morsi, il sangue sgorgava copioso a inzupparle il camice. Un monitor ancora integro attirò la mia attenzione. Dal piano di sopra udii un tonfo sordo seguito a breve distanza da un fracasso metallico, probabilmente il ribaltarsi di un tavolo operatorio con tutti gli strumenti chirurgici. Mi avvicinai al terminale. Si alternavano in loop due schermate: una completamente nera inondata da righe di codice e una che rappresentava il rendering di una specie di grosso cane, a fosfori verdi. La stampante gracchiava a brevi intervalli e una lucina lampeggiava di rimando. Strappai il foglio che ne penzolava. Man mano che leggevo i miei sospetti prendevano corpo. Nemmeno un agente del mio grado era autorizzato a violare la segretezza di quel tipo di file. Scorrevo frenetico la pagina, ero sempre più sconcertato. Si trattava del prototipo di un nuovo armamento. Un'alternativa ai robot. Gli androidi richiedevano costi ingenti per la costruzione e la manutenzione. Impiegati in condizioni ambientali estreme, ad esempio nel deserto o al circolo polare artico, a volte subivano avarie che li rendevano inutilizzabili e il conseguente recupero comportava un gran dispiego e sacrificio di uomini e mezzi. Il software inoltre andava periodicamente aggiornato, quando non doveva essere corretto o addirittura riscritto.
Questa volta avevano fuso in un'unica creatura i tre regni: animale, vegetale e minerale. Avevano ottenuto un essere simile a un puma, ma circa tre volte più grande. Le cellule erano state “vegetalizzate”, per così dire: era in grado perciò di ricorrere alla fotosintesi clorofilliana, provvedendo così all'infinito al suo sostentamento anche in totale assenza di cibo. Grazie ai geni dell'abete rosso poteva vivere migliaia di anni. Riguardo all'apporto del regno minerale non ci ho capito granché, sono un soldato non uno scienziato. Da quel che ho potuto intuire sembrerebbe che, quando si sente minacciato, grazie ad un particolare processo chimico può mutare il suo manto in un minerale simile al granito, impossibile da scalfire. In pratica sarebbe invulnerabile. Avrebbero potuto clonarne milioni in tempi rapidissimi e con spese risibili. Era stata modificata la primordiale reazione istintiva del “combatti o fuggi” facendo in modo che la creatura fosse costantemente in overdose di adrenalina e attaccasse per uccidere chiunque avesse davanti: una scheggia impazzita da liberare nella zona calda e lasciar scatenare finché avesse fatto terra bruciata tutto intorno. Era stato anche impiantato un chip esplosivo nel cuore, probabilmente per sbarazzarsene a missione ultimata. Così dunque stavano le cose. Finito di esaminare il dossier la pistola laser, mia unica difesa, mi sembrava ben poca cosa. D'improvviso un lieve sbuffo dietro di me.

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