venerdì 28 settembre 2012

COMPULSIONI

Occupato. Non ci voleva! Parcheggiava sempre nello stesso posto; la giornata così cominciava meglio, specialmente quando andava dalla dottoressa. Quello era il suo, di posto! Aveva fissato le sedute alle nove del mattino di ogni lunedì. Anche all'ospedale, prima che lo dimettessero, si erano raccomandati di “consolidare le abitudini e i rituali”, proprio così avevano detto, “per non compromettere l'equilibrio faticosamente raggiunto dopo anni e anni”, una cosa del genere. Gli piaceva essere il primo, pensare che prima di lui nessuno si era seduto su quel lettino; pensare che come per lui anche per la dottoressa Paolucci quello era il primo impegno del primo giorno della settimana; gli dava conforto, sentiva un tepore rassicurante irrorargli le tempie e sciogliersi nello stomaco. In quel modo inoltre non doveva subire il supplizio della sala d'attesa: non riusciva proprio a starsene buono e fermo sulla sedia. A nulla servivano le copertine sgargianti delle solite riviste, le stesse che trovava anche dal dentista. Faceva lunghi respiri ma finiva immancabilmente con lo stropicciarsi le dita e mangiarsi le unghie; le pareti piano piano gli si avvicinavano, via via sempre di più fino a collassargli addosso; allora qualche goccia di sudore freddo gli rigava la fronte, finché dalle raffigurazioni bucoliche si levava un gemito che in pochi secondi esplodeva in un urlo straziante. Forse avrebbe dovuto raccontarlo alla dottoressa. Con un lungo sospiro girò la chiave e, mentre il motore si ammutoliva borbottando leggermente, si abbandonò sul sedile, affranto per l'ennesima inattesa frustrazione. Le nove meno dieci. Avrebbe fatto tardi. Non andava bene. Guardò nel retrovisore e vide due occhi disgustosamente languidi, sul punto di piangere. Sgommò rumorosamente e la Simca bianca inchiodò a scossoni nel posto per invalidi. Sbatté scendendo la portiera. Cinque minuti. Si aggiustò la cravatta, con rapidi gesti si sistemò gli spessi occhiali e appiattì i radi capelli grigio-marroni dietro le orecchie. Una vecchia con un fazzoletto in testa, piegata da due stracolme buste per la spesa, gettò un'occhiata alle strisce gialle e al simbolo sul cartello; quindi si fermò un istante e distendendo tutte le rughe concentrò su di lui un'espressione di rimprovero. Lui ricambiò lo sguardo con aria assente, c'era posto per un unico pensiero: non arrivare in ritardo! L'ascensore era lento e rumoroso. Dalla volta scorsa il ragno aveva ampliato la sua ragnatela, nell'angolo su a destra. Ma non lo puliva mai nessuno? Odiava i bambini. E più di tutti odiava quello che anche adesso lo stava fissando. Calcolò che era la settima volta che rimaneva intrappolato in quell'ascensore con lui e con sua madre. Ma i genitori non insegnavano più ai figli che non sta bene fissare le persone?! Sì, era la settima volta: due volte ci si era imbattuto salendo, poi tre scendendo, di nuovo una quando saliva e poi una quando se ne andava. Sentì i pugni contrarsi. L'occhio sinistro gli formicolava, ecco arrivare il solito tic. Moccioso impertinente, con la sua facciona di mozzarella tutta sporca di lentiggini... e quei capelli rossi! Il display segnava “2”. Il ragno si mosse di mezzo centimetro verso il centro della sua mirabile costruzione. Espirò lentamente e a lungo, socchiudendo gli occhi. Speriamo sia sparito, sparisci, sparisci...! Li riaprì di scatto e si trovò sempre piantate addosso le due fessure verdastre del mostriciattolo. Un lieve clangore accompagnò il grande “3” a cristalli liquidi rossi. Il “5” era ad una distanza immensa e la palpebra sinistra si serrava ormai due o tre volte al secondo; per il bimbo doveva proprio essere uno spettacolo molto divertente! Fissò intensamente la nuca della madre, voleva bucarla e attraversarla fino agli occhi, per farle capire che il figlio lo stava infastidendo e andava punito. In quei casi ci volevano tre o quattro ceffoni a mano aperta, in pieno viso, di quelli che ti esce il sangue dalla bocca e dal naso e che ti rimane la macchia viola per un mese. Così faceva suo padre, così si educavano i figli. Ci voleva disciplina, se no poi quella era gente che finiva per rapinare i negozi e morire di droghe e alcol. Invece lui guarda come era venuto su bene: un uomo tutto d'un pezzo, tutto coerenza e senso del dovere!. Finalmente arrivò il “5” tanto sospirato e le porte si aprirono di scatto; finalmente libero, ciao ragno, ciao neon, ciao “5”, ciao rumore, ciao signora, ciao bambino pestifero. Al bivio del corridoio prese a sinistra e con la coda dell'occhio seguì i due fin quando scomparvero; solo allora si sentì sollevato, come agli orali della maturità, quando quell'ultima domanda sul Congresso di Vienna l'aveva catapultato nel turbinio di spiaggia mare e vacanze. La grande targa ovale d'ottone sopra il campanello ammiccava con complicità, leggermente sbavata di rosso. Suonò guardandosi un istante in giro con circospezione. Il lungo corridoio era deserto. Si toccò il nodo alla cravatta, portò l'indice alla montatura di tartaruga e si sforzò di stare più dritto possibile. Scostò il nastro giallo e sospinse con cautela il pesante portone di mogano. Salutò brevemente la dottoressa abbozzando un sorriso e si stese come al solito sul lettino. Le nove, era in perfetto orario. Sentiva che anche la dottoressa, seduta alle sue spalle con le gambe accavallate, se ne compiaceva. La puntualità era un pregio che denotava encomiabile fermezza di carattere e rispetto del prossimo.
“Dunque dottoressa, questa volta vorrei iniziare raccontandole un sogno... ah, prima in ascensore c'era quel bambino, quello stro... scusi, ma è proprio fastidioso, fissa, fissa, ma che caz... cavolo guardi? E' la settima volta... E la madre poi non gli ha detto nulla, poi dicono che i giovani sono tutti delinquenti... ci credo... se lo facevo con mio padre... quella volta mi ha dato cinquanta vergate con la cinta... ho ancora le cicatrici... Basta dai, torniamo al sogno. Ecco, me lo sono segnato, bisogna scriverli, come mi ha detto lei, se no poi si scordano, uno pensa di ricordarli invece poi quando deve raccontarli non se li ricorda...e allora ecco qui...”. Estrasse dalla tasca un foglio stropicciato di un quaderno a scacchi grandi. “Sto camminando nella via sotto casa mia, è giorno. Mi guardo i piedi e sono lunghissimi. Indosso delle stranissime scarpe rosse a punta, da donna, col tacco. Mi fanno male e non ci cammino bene. Non mi vedo tutto intero, vedo solo le mie gambe con questi piedi lunghissimi e le scarpe da donna. E' una bella giornata, c'è il sole e il cielo è limpidissimo. Sembra estate, fa molto caldo. Ma non mi sento felice. In estate di solito sono felice. Ho come una sensazione di disagio. Non è paura, è come... come di qualcosa che mi fa schifo... tipo un gatto spiaccicato per strada, con le budella di fuori e la lingua fra i denti. Ma per strada non c'è nulla, neanche una macchina. Poi mi accorgo... nel sogno dico... ho la sensazione di accorgermi che qualcosa non torna... infatti non è proprio la strada di casa mia: non ci sono né i lampioni né la fila di pioppi. Mi vedo dal di fuori: sono piccolo, avrò otto o dieci anni. Indosso i jeans e quelle scarpe strane di prima, ma ho i capelli lunghi e biondi, con tanti boccoli. Non li ho mai avuti così. I miei sono castano scuro e li ho sempre portati corti, anzi... già adesso che vado per i quaranta sono abbastanza pelato...”. Gli sfuggì un sorriso ma subito il tono tornò serio. “Sopra invece porto una maglietta bianca, ma è a brandelli; sulla schiena ho dei solchi lunghi e profondi che grondano sangue... lascio una scia di sangue dietro di me man mano che cammino, ma non sento dolore. Poi la scena cambia all'improvviso. Sprofondo in delle specie di sabbie mobili, ma come di petrolio, nere. Mi dibatto con tutte le mie forze per respirare, per uscire, per sopravvivere, ma alla fine vengo inghiottito. Cado in una caverna. E' tutto buio e fa freddo. Cammino carponi in un tunnel lungo e stretto. Sento sui palmi delle mani il viscido della fanghiglia, la giacca mi si imbratta sempre di più di terra. Vado avanti, non ho scelta, continuo a proseguire carponi di fronte a me, anche se non vedo niente. Sento come una voce che mi dice di continuare, c'è come una forza che mi spinge da dietro. Ad un certo punto sbatto la testa su uno spuntone di roccia e mi cadono gli occhiali; li calpesto col ginocchio e sento le lenti infrangersi. Allora mi assale una paura cieca, mi sento perduto... poi d'un tratto la paura si trasforma in odio, in collera, sempre qualcosa di cieco, senza scampo... come qualcosa di... come dire...ineluttabile. Sì, ecco: ineluttabile! Questa è la parola giusta! La scena cambia ancora: sono di nuovo sulla stessa strada di prima, ma stavolta non sono più bambino, sono grande. Sono vestito proprio come ora. Il cielo non è più sereno ma tutto coperto di nuvoloni grigi e c'è lo stesso freddo della grotta di prima. Sento che è proprio lo stesso freddo dell'altra parte del sogno, trasportato lì dall'altra parte del sogno voglio dire... ha capito cosa intendo dottoressa?”. Abbozzò un mezzo sorriso, sospirò malinconico e riprese “ Vedo venirmi incontro una moltitudine di gente; all'inizio sono tutti minuscoli in fondo alla via lunghissima ma ad ogni passo guadagnano decine di metri; in pochi istanti quella folla smisurata copre tutto l'orizzonte, mi stanno davanti... ma non sono persone normali: sono alti tre metri e tutti vestiti uguali, giacca cravatta pantaloni e scarpe nere. Ma la cosa più inquietante è che non hanno volto. Al posto della faccia hanno quell'alone che mettono alla televisione per nascondere l'identità dell'intervistato. Mi guardo le mani e vedo che mi è spuntato un coltello, un lunghissimo coltello da cucina. Poi le mani e il coltello sono tutti sporchi di sangue. Ecco, finito! Il sogno finisce così. L'ho fatto tre notti fa. Che ne pensa, dottoressa?... Ops, mi scusi dottoressa, vedo che il tempo è scaduto, sono le dieci in punto; vorrà dire che me lo spiegherà nella prossima seduta. Bene, ora vado, buongiorno dottoressa”. Andando alla porta inciampò in un contrassegno giallo di plastica con un numero nero a caratteri cubitali. Lo rimise in piedi e restò un attimo perplesso: tutto attorno sulla moquette c'era una grande macchia scura. Strano, entrando non ci aveva fatto caso. “Ah dottoressa...”, si riscosse di colpo accendendosi freneticamente in viso, “le è caduta la penna...”. Raccolse un'elegante stilografica in argento che spuntava da sotto un comò ribaltato e la appoggiò sulla sedia vuota dietro al lettino su cui giaceva fino a un attimo prima. “Di nuovo buona giornata, ci vediamo lunedì prossimo. Puntuale alle nove, come sempre”. Rivolse un ultimo cenno di saluto alla sedia vuota, riattaccò allo stipite il nastro giallo e prese le scale. Niente ascensore questa volta. A quell'ora la ragnatela del ragno aveva intasato tutta la cabina. E poi il solo pensiero di rivedere quel ragazzino lo faceva uscire dai gangheri. E non era proprio il caso di guastare il momento... dopo la terapia con la dottoressa Paolucci si sentiva così bene... bene da morire!!!

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